Immagini
Durante l’osservazione quotidiana delle notizie e degli avvenimenti del presente e del passato dovremmo sempre esercitare, nei confronti della comunità cui apparteniamo, un dovere fondamentale: la ricerca della verità. Questo principio, utile e valido per gli avvenimenti del presente (anche se più complicato per la difficoltà di saper interpretare la contemporaneità), lo è soprattutto per quelli del passato, quando i “ricercatori” appartengono a quella categoria di umanità che ha aderito idealmente ai valori risorgimentali, e garibaldini in particolare.
Di questo “dovere fondamentale” si è fatto carico Leandro Mais che, attraverso la stesura del seguente breve articolo, intende riaffermare con decisione particolari della verità storica legata alla figura di Anita Garibaldi, in occasione del bicentenario della sua nascita (1821-2021), contrastando così false notizie e immagini, troppo facilmente abilitate a navigare su internet, grande calderone di “verità” e di “menzogne”.
P.M.
Purtroppo nelle ricorrenze commemorative di tutti i grandi personaggi storici assistiamo ad una notevole produzione di biografie di questi, alcune delle quali veramente inesatte (e ancor più gravi, a volte, se in malafede). Considerando la ricorrenza bicentenaria della nascita dell’eroina Anita Garibaldi dobbiamo constatare, anche per Lei, molte inesattezze e falsità.
Questa mia ricerca si concentra sull’apparizione di una fotografia (che risulterà anche ritoccata) che raffigura un’alta e snella figura femminile, in camicia rossa, pantaloni, gambe incrociate, giacca con medaglia sul bavero sinistro. Al centro della foto è stata stampata la scritta “Anita” (Foto 1). Questa foto appare per la prima volta sulla rivista “Focus – Storia” n. 12 – febbraio-marzo 2007, articolo pag. 58, “l’Infedele” di Paola Grimaldi. Lo stesso articolo con la stessa fotografia è nuovamente pubblicato (a firma sempre della Grimaldi) sulla stessa rivista in data “autunno 2013”.
Nel 2009 viene edito da Polistampa il volume “Garibaldi innamorato – La figura dell’eroe e del garibaldinismo in toscana” di A. Frontoni e C. Pasquinelli. Il volume raccoglie gli atti del convegno a Piombino del 2007. Nella copertina di questo libro è riprodotta la stessa foto sopra descritta, (Foto 2) nella quale però si vede, dietro la figura, un mobile ove lei si appoggia e, a sinistra, un cappello (da questa foto si capisce che la prima è stata ritoccata).
Altro esemplare di questa foto (completa di mobile e cappello) viene riportata su internet (2 marzo 2017 – italcard.canalblog.com.archives “Ritratto di Anita”. A destra della foto si legge:”Nel 1848 Anita, con Teresita e Ricciotti, s’imbarca per Genova per spostarsi a Nizza a casa della madre di Garibaldi ma muore il 4 agosto 1849 a Genova di febbre tifoide. Non aveva ancora 28 anni. Le sue spoglie furono trasportate da Genova a Roma il 2 giugno 1932 …….”(Foto 3)
Credo che bastino soltanto queste notizie, completamente di pura fantasia, per evidenziare le “fake news” di questo articolo e naturalmente della falsa identificazione della foto (questo vale anche per le altre riproduzioni sopra citate).
Un’ltra foto (Foto n. 4) risulta più completa delle precedenti in quanto riporta, in basso a destra e sotto lo stemma coronato dei Savoia, il bollo incompleto (manca la città) del “Museo del Risorgimento”; Il sito ove appare (www.getty.images.it/detail/fotografie) ha in vendita riproduzioni. Anche questa foto, come le altre, viene citata come “Foto di Anita Garibaldi”. Ad escludere questa attribuzione valgono questi elementi:
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A – La statura e il particolare abbigliamento maschile, nonché la medaglia.
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B – Anita Garibaldi nel 1849, a Roma, era all’ottavo mese di gravidanza (gravidanza che determinò la sua morte a Ravenna il 4 agosto 1849 – località Mandriole) ma il suo stato fisico non appare minimamente nella foto.
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C – La foto in esame non era ancora stata inventata, perché nel 1849 erano realizzati solo i “dagherrotipi” e le “carte salate”.
Per dare una identità a questa immagine possiamo ipotizzare, fra i vari indizi, che il personaggio in esame potesse essere “Tonina Marinelli” detta “la garibaldina” (il suo vero nome era “Antonia Masanello in Marinelli”). La sua biografia è descritta nell’opera di Emilio Giacomo Curatulo in “Garibaldi e le donne” (ed. Polyglotta 1913 pag, 68) che ne dà una riproduzione in litografia a colori. In effetti questa giovane donna prese parte nel 1860, insieme al marito, alla Campagna dei Mille da Milazzo al Volturno, meritandosi la decorazione sul campo.
Per ultimo, a ricordare le vere sembianze di Anita Garibaldi è il ritratto dipinto “dal vero” a Montevideo nel1845 dal pittore Gaetano Gallino; immagine che a tutt’oggi si conserva nel Museo del Risorgimento di Milano (foto 5)
P. S.
Un’ultima notizia mi informa che anche un Comitato di onoranze brasiliano in onore di Anita ha rivendicato il ritrovamento di questa falsa identificazione .
Leandro Mais
di Leandro Mais
Questo mistero, ancora oggi irrisolto, riguarda la medaglia (in oro, argento e bronzo) coniata dal Comune di Roma per Garibaldi, a ricordare il suo impegno per la realizzazione del complesso progetto di sistemazione del Tevere, peraltro mai eseguito (gli attuali muraglioni sono del progetto dell’ing. Canevari).
Questa bellissima medaglia fu realizzata dal bravissimo artista Antonio Stirletti (Roma 1822-1904): nel dritto, al centro, c’è la testa “nuda” di Garibaldi volta a destra; in cerchio, la scritta:”ROMA A GARIBALDI – MDCCCLXXXI”; sotto il taglio del collo: “A. STIRLETTI” (foto 1). Nel rovescio è rappresentata, in forme mitologiche, l’allegoria del Dio Tevere. In cerchio la scritta: “TIRANNO NELLA SCHIAVITU’ LA LIBERTA’ M’INCATENA” (foto 2).
Da quanto risulta nella scritta del dritto questa medaglia è datata “1881”. E’ appunto da questa data che nasce il mistero.
Agli amici lettori ed a tutti i collezionisti di medaglie garibaldine faccio presente che le notizie su questa medaglia sono a tutt’oggi inedite.
La mia ricerca comincia con il fortunato ritrovamento di un documento sconosciuto fino ad oggi: si tratta del testo della delibera con la quale il Consiglio Comunale di Roma decretava il 19 maggio 1882 la coniazione di una medaglia d’oro al Generale Garibaldi per il suo appassionato impegno per i lavori del Tevere. Come tutti sanno l’Eroe viene a mancare il 2 giugno dello stesso anno.
Quindi questo documento (foto 3) riporta in maniera chiara che la medaglia fu consegnata il 20 settembre dello stesso anno alla famiglia dell’Eroe.
Questi dati (come si può vedere dalla foto 3) risultano, come ho detto sopra, dal decreto del Comune di Roma del 2 ottobre 1882.
Tutto il testo del decreto suddetto si trova in Campidoglio, inciso su di una lastr
La foto è dell’archivio del Comune di Roma e mi fu gentilmente donata, su mia richiesta, nel 1982 dal Capo del cerimoniale del Comune. Ciò premesso resta ancora oggi inspiegabile la data coniata sulla medaglia: “1881”. Forse il Comune di Roma, nel retrodatare di un anno il ricordo aureo, pensava di dimostrare che il dono fosse stato fatto all’Eroe ancora in vita ?!a di marmo murata nella parte destra di uno stretto corridoio, cui si accede attraverso una piccola porta della parete destra della grande sala di Giulio Cesare ( o delle bandiere).
Naturalmente anche l’unico catalogo esistente sulle medaglie garibaldine (Sarti 1933) mette questa bellissima e rarissima medaglia all’anno “1881”. In questo catalogo, al n. 116, apprendiamo una interessantissima notizia: ”Di questa medaglia sono rari i pezzi coniati causa la rottura del conio avvenuta dopo la battitura di pochi esemplari, ve ne sono di fusi molto più comuni”.
Questo è quanto ho potuto ricostruire su questo esemplare e sulla vera storia della sua coniazione e donazione, il cui mistero ancora oggi permane.
Ci siamo sempre!
In “vigile attesa”.. di tempi migliori, il nostro pensiero è oggi rivolto ai martiri italiani della Repubblica Romana del 1849, degnamente rappresentati dal suo primo caduto: Tenente Paolo Narducci.
di Leandro Mais
A ricordare questa data storica, che segna la prima formazione di quasi tutte le sue parti finalmente unite in un unico regno (alla totale Unità mancava ancora il Veneto e il Lazio) ho pensato di illustrare questo avvenimento con quattro oggetti della mia collezione: due del 1911 e due del 2011.
Il primo oggetto è un bellissimo orologio da panciotto (con catena e moschettone della nota fabbrica svizzera “Roskopf”) appositamente realizzato per il primo 50° del Regno d’Italia e donato ai Deputati del Regno. Nel quadrante anteriore (Foto 1/A diametro mm. 53), al centro in alto, è raffigurata l’aquila sabauda con lo scudo Savoia nel petto; sotto, la data “1861-1911” e, in cerchio, “Ricordo patriottico”. Nel bordo di metallo, in cerchio ed a rilievo, “Cinquantesimo anniversario del Risorgimento – 1861 = scudo Savoia = 1911”. Nel retro (Foto 1/B), sulla calotta metallica e in cerchio: “Ai fondatori dell’Unità Italiana”. Al centro, una grande stella a cinque punte, in ognuna delle quali il busto dei quattro fattori dell’Unità: Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Cavour, Mazzini, più quello di Enrico Cialdini. Al centro della stella la scritta in tre righe: “L’Italia / farà / da se” (frase detta dal Re Carlo Alberto nel 1848). Sotto, un’aquila con lo scudo Savoia nel petto.
Il secondo oggetto, di natura popolare, è una scatola (Foto 2) in metallo (mm. 280 x H mm. 167 spessore mm. 105) per cioccolatini artisticamente decorata e a colori, con i ritratti di Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e Mazzini. Al centro due tondi con, a sinistra, lo stemma della città di Torino e a destra quello di Roma. Sopra questi due stemmi un nastro tricolore con la scritta in due righe ”Cioccolato” / “Risorgimento”. Sul lato della scatola è presente la scritta “Società / anonima italiana cioccolato ed affini / Torino”. Le illustrazioni che decorano questo oggetto lo fanno (quasi certamente) datare al 1911 ovvero al primo 50° del Regno d’Italia.
Prima di descrivere gli altri due oggetti del 2011, 150° del Regno, è necessario un chiarimento. Se la data del 1911 è quella del primo 50° del Regno d’Italia, quella del 1961 dovrebbe essere, di conseguenza, quella del primo centenario sempre del Regno d’Italia e non come è stata ufficialmente dichiarata dell’”Unità d’Italia”. Di conseguenza nel 2011 si è celebrato il 150° della “così detta” Unità d’Italia, e quest’anno, 2021, ne ricorrerebbe il 160°.
Ciò premesso vengo a descrivere gli altri due oggetti del 2011: il primo oggetto è una scatola di biscotti (Foto 3) della ditta Lazzaroni di Lainate (Mi) (metallo mm. 283 x mm. 182 x H mm. 60) a ricordo del 150° dell’Unità d’Italia. Questa data (come abbiamo suddetto di fantasia) segue ad altro errore nella scelta della illustrazione stampata che riproduce l’ingresso di Garibaldi a Napoli il 3 settembre 1860 e non 1861, come scritto a destra dell’illustrazione.
Il secondo oggetto è un ricordo per il 50° delle prime Fiat 500 (1961-2011 Foto 4/A) Entro scatola di cartone a tre lati ed il quarto trasparente (cm. 14 x cm. 9 x H cm. 10). Al centro un modellino metallico di una “Fiat 500” di color rosso (cm. 6,5 cm. 2,6 x H cm. 3) alla cui destra è presente una riproduzione metallica a colori di Garibaldi (cm. 2 x H cm. 4), tratta dal quadro di Gerolamo Induno (Foto 4/B). In questa riproduzione nella parte superiore è stata stampata la scritta in quattro righe: “Qui si fa l’Italia o si muore – 150° anniversario Unità d’Italia 1861-2011. Sul fianco destro della scatola (Foto 4/C): “Giuseppe Garibaldi – Lo sbarco delle Mille 500 rosse – a Marsala 11 maggio 1860 – 150° anniversario Unità d’Italia 1861-2011”.
Credo che questo oggetto sia quello che contenga il numero più alto di errori, di cui qui appresso elenco:
(Foto 4/A) La Fiat è nata nel 1961 e quindi anche se per un anno non coincide con tutto ciò che riguarda lo sbarco di Garibaldi a Marsala (1860)
(Foto 4/B) La frase “Qui si fa l’Italia o si muore” fu detta da Garibaldi durante la battaglia di Calatafimi del 15 maggio 1860; quindi anche questa seconda frase non ha alcun riferimento al 1961
La frase “150° anniversario Unità d’Italia / 1861-2011“ ancora una volta ripete l’errore di UNITA’ D’ITALIA e non REGNO D’ITALIA
(Foto 4/B) “Giuseppe Garibaldi” Il nome dell’Eroe alla fine di questo scritto risulta come se fosse l’autore di tutto ciò che è scritto sopra, mentre andava posto sotto la prima frase.
(Foto 4/C) Per quanto riguarda la scritta sul lato destro della scatola, gli errori in essa contenuti sono stati già esaurientemente illustrati.
1A 1B 2
3 4A 4B
4C
In un momento così difficile per il nostro paese, per il lavoro, per la credibilità delle istituzioni, per il timore di ammalarsi e venire coinvolti nel girone dantesco della Sanità pubblica, umiliata per aver subito negli anni scorsi pesanti tagli economici che l’hanno costretta a disorganizzare capillarmente le sue strutture, il nostro pensiero non può non essere rivolto, per pochi minuti, alla data del 9 febbraio 1849.
Quando l’uomo del XXI secolo scruta il passato ed entra nella storia degli avvenimenti che hanno costruito il suo presente, dovrebbe essere in grado di selezionare i fatti storici in funzione della scelta di una discriminante fondamentale: il progresso dell’umanità. La Repubblica Romana del 1849, per quanto di brevissima durata, risponde in pieno a tale principio.
Dopo 172 anni di storia italiana, europea e mondiale, possiamo riscontrare con ragionevole certezza che i principi enunciati in quel fatidico giorno di febbraio, comprese le successive azioni di governo, costituiscono ancora un miraggio per una buona fetta di umanità, come i diritti umani calpestati da varie dittature militari o pseudo democratiche e la pena di morte, ancora vigente persino in gran parte degli stati uniti d’America.
Oggi facciamo molta fatica a riconoscerci nello spirito di quel profondo rinnovamento della coscienza, di quel progresso che, partendo dagli ideali repubblicani di libertà eguaglianza e giustizia si sarebbe concretizzato in leggi e decreti attuativi destinati all’innalzamento della dignità di ogni cittadino. Una fatica, la nostra, dovuta al logoramento della volontà di migliorare e migliorarsi, attratti come siamo, costantemente, dall’egoismo e da un materialismo che respinge ogni idealità.
Nell’impossibilità momentanea di riunirci, tutti, per celebrare insieme la memoria della Repubblica Romana del 1849, vogliamo comunque ricordare, a testimonianza di quanto già espresso, e con spirito di devozione verso coloro che si sacrificarono per difenderla, l’elenco di alcuni atti legislativi emanati nel febbraio-aprile 1849:
- I beni ecclesiastici diventano proprietà della Repubblica Romana
- Libertà di culto per tutte le confessioni religiose
- Abolizione della censura, della pena di morte, del Tribunale del S.Uffizio
- Istituzione del matrimonio civile
- Abolizione della tassa sul macinato e del monopolio del sale
- Abrogazione dell’esclusione delle femmine e dei loro discendenti nei procedimenti di successione
- Carattere pubblico dell’Università e dell’istruzione, creazione del Ministero della Istruzione Pubblica
- Riforma Agraria (Aprile)
Paolo Macoratti – Presidente Ass.ne Garibaldini per l’Italia
Il nostro omaggio al Sacrario dei caduti per Roma di via Garibaldi (Paolo Macoratti, Giovanni Blumthaler, Maurizio Santilli, Stefano Dini)
Il Brasiliano Rogério Guilherme de Oliveira ci ha scritto informandoci di aver composto una “samba” in onore di Anita Garibaldi, in occasione del 200 anniversario della nascita dell’eroina.
Pubblichiamo con piacere, con il link a fondo pagina, l’esecuzione di questa originale trovata.
Ciao! Mi chiamo Rogério Guilherme de Oliveira, vivo a Florianópolis (Santa Catarina, Brasile) dove sono nato. Fin da piccolo, ho sentito storie su Anita Garibaldi, di come era guerriera, coraggiosa, in anticipo sui tempi, motivata dall’idea della giustizia sociale.
Sono stato il direttore fondatore del Corale Helio Teixeira da Rosa, della Corte dei Conti dello Stato di Santa Carina, di cui sono funzionario dal 1994. Quest’anno sono stato invitato a partecipare al comitato organizzatore per le celebrazioni dei 65 anni di installazione della Corte e, incoraggiato a proporre eventi commemorativi, ho pensato di comporre una canzone in onore di Anita Garibaldi, che è il nome di una onorificenza da istituzione.
È stato in questo contesto che ho iniziato attenerme più profondamente alla storia della mia famosa connazionale. Tuttavia, dopo la fase di composizione, sono venuto a conoscenza del duecentesimo anniversario dalla nascita della nostra eroina. Ed in questo momento, sono lieto di invitare Lei ad ascoltare quello che è finito per diventare il mio samba dal titolo “Anita Guerreira, Heroína da Pátria Brasileira”.
Per accedere alla clip (con sottotitoli in Italiano ed Inglese), fare clic qui. Spero che le piaccia!
Grazie per la sua attenzione.
L’analisi accurata dei manufatti di un determinato momento storico, siano essi artistici o meno, porta inevitabilmente a ritrovare, nelle loro rappresentazioni, notizie che possono essere aderenti alla realtà documentale o completamente fantasiose. E’ un metodo di analisi utile per conoscere la storia; metodo che Leandro Mais continua a praticare con grande passione.
IL GENERALE GARIBALDI ..VISTO DAI “CUGINI” FRANCESI
di Leandro Mais
La mia collezione garibaldina si è arricchita pochi giorni fa di un particolare pezzo, ovvero di un bronzo rappresentante una statuetta di Garibaldi in divisa da Generale del 1859 (H mm 340). L’opera poggia sopra un alto basamento (H mm 150) che reca nei quattro lati due scene con figure e due avvenimenti con relativa data (mm. 93 x H mm. 68). Data la particolare realizzazione della scultura (che svilupperò qui appresso) chiedo questa volta ai miei cari lettori se mi possono essere di aiuto nel chiarire certi particolari che anche a me restano poco decifrabili.
Per quanto riguarda la figura del Generale (foto 1) reputo che sia eseguita in maniera abbastanza artistica ma non posso non segnalare il particolare – veramente di fantasia dell’autore – delle ben quattro medaglie applicate sulla destra della giacca. Ho sottolineato ciò perché, come tutti sanno, l’Eroe non portò mai nessuna decorazione, neppure quella che gli fu data in oro per la Campagna del 1859. Come curiosità ricordo che né in Italia, né all’estero, esiste un monumento di Garibaldi con questa divisa.
L’opera risulta realizzata da un artista francese, “MACHAULT” (foto n° 2), come risulta dall’incisione nella colonnina di destra, dove l’Eroe poggia la mano sinistra su una carta geografica dell’Italia meridionale, con la scritta “CARTE / D’ ITALY” (foto n° 3).
E ora due parole sulla parte meno chiara che si nota nei quattro lati del basamento. Infatti i quattro riquadri raffigurano due scene (senza luogo e data) e due epigrafi datate. Iniziamo con la scena posta sul davanti (foto n° 4): al centro la figura di Garibaldi (di fronte) a capo scoperto in divisa da Generale (in quanto indossa una giacca lunga e mantello); ai suoi lati due gruppi di patrioti e sullo sfondo un gruppo di palazzi. Quanto descritto non risulta ascrivibile ad alcun fatto storico.
Proseguendo a destra (foto n° 5), troviamo la scritta: “PRESA DI PALERMO / IL DI 27 MAGGIO 1860″. Continuando nel retro (foto n° 6) vediamo questa scena: al centro un personaggio in divisa con in capo una feluca, baffi e pizzetto; alla sinistra un gruppo di Zuavi (dai caratteristici pantaloni), tra i quali uno con un foglio in mano; a destra altri Zuavi, di cui uno con fucile e l’altro con bandiera. Possiamo azzardare, dai pochi elementi caratteristici della scena, che il personaggio al centro possa essere il Re Vittorio Emanuele II, che appunto dopo la battaglia di Palestro (30-31 maggio 1859) fu nominato Caporale degli Zuavi per il suo comportamento eroico. Nell’ultimo riquadro (foto n° 7) è riportata la scritta “ANNESSIONE DELL’ITALIA /CENTRALE AL PIEMONTE / 18 E 20 MARZO 1860″.
Da quanto sopra descritto possiamo riassumere che delle due scene storiche solo una riguarda Garibaldi e che delle due scritte solo quella di Palermo riguarda l’Eroe. Quindi ringrazio anticipatamente chi troverà notizie più illuminanti.
Mi sembra interessante aggiungere alle descrizioni precedenti due opere che riguardano sempre questo tema (Garibaldi Generale). Si tratta di due litografie francesi d’epoca in cui è evidente lo “chauvinisme” dei nostri cari “cugini” d’oltralpe. Come potete vedere il Capo delle camicie rosse è stato ritratto nella divisa da Generale anche in questi due famosi episodi del 1860: 1) “Garibaldi” - litografia (foto n°8) (mm 455 x H mm 670) – dis. “Ferrat” scul. “E. Guvais” (Garibaldi a Calatafimi) – 2) “Victor Emmannuel et Garibaldi / devant Capoue” – Litografia (foto n° 9) (mm 455 x H mm 664) “P. Dien imp. Paris” – Editeur “Artheme Payard” (Incontro di Teano).
Penso che questa ultima testimonianza sulla divisa del Generale nei due episodi storici del 1860 valgono a dimostrare certi preconcetti dei nostri vicini “Galli”.
Il 17 marzo 2016 mettemmo in evidenza, su questo sito, la prassi consolidata del voler considerare la data del 17 marzo 1861 come rappresentativa dell’Unità d’Italia, a dispetto della sua vera identità storica legata invece alla Proclamazione del Regno d’Italia. Oggi Leandro Mais riprende questo argomento in occasione del 160° anniversario dell’incontro di Teano del 26 Ottobre 1860, corredandolo di alcuni significativi oggetti della sua collezione.
TEANO, 26 OTTOBRE 1860 – L’UNITA’ D’ITALIA E’ RIMANDATA AL 1918
di Leandro Mais
Ricorrendo quest’anno il 160° dello storico Incontro di Teano (oggi ribattezzato di Vairano) credo sia interessante riguardare gli effetti e le conseguenze storiche di questo episodio, tanto sbandierato e conclamato in passato, anzi direi ancora fino ad oggi, prescindendo da ciò che si tramanda riguardo i risultati altamente positivi che avrebbe prodotto.
L’incontro fra il Re dei Sardi-Piemontesi con il Capo dei Volontari in camicia rossa viene interpretato come la fusione di due strategie: quella ufficiale monarchica e quella dei volontari. In realtà i fatti successivi dimostreranno l’esatto contrario, e cioè la loro sostanziale divisione: la parte regia, in quanto dipendente politicamente dall’Imperatore di Francia Napoleone III, e i Volontari, liberi ed anelanti ad unire finalmente tutti gli Italiani.
Possiamo quindi affermare che quel giorno fatidico del 26 ottobre 1860, Garibaldi, che aveva nominato in anticipo il Re di Sardegna “Re d’Italia”, vide che stava per realizzarsi il sogno di continuare l’impresa unitaria insieme all’Esercito Regio. Questo sogno s’infranse però subito: infatti Vittorio Emanuele gli ordinò con fermezza di sospendere ogni futura azione bellica dei suoi Volontari, in quanto da quel momento sarebbe passata ai suoi ordini e quindi all’esercito regio.
Con l’occasione vorrei ricordare (perché nella storia le date devono corrispondere esattamente a un determinato fatto) che una cosa è il ” Regno d’Italia” e un’altra cosa è l’ “Unità d’Italia”. Questa precisazione è necessaria.
Come tutti sanno, il 1961 fu dichiarato ufficialmente “Anno del Centenario dell’Unità d’Italia”; naturalmente l’errore ritornò esattamente cinquanta anni dopo, ovvero nel 2011, dichiarato ufficialmente “Anno del Centocinquantesimo dell’Unità d’Italia”. Storicamente i fatti sono stati interpretati (volutamente?) in maniera errata in quanto la Storia ci riporta ufficialmente che il 17 marzo 1861 (legge n° 4761) iniziava il Regno d’Italia (non l’Unità d’Italia), il cui primo Re era Vittorio Emanuele II, già Re di Sardegna e Piemonte, il quale volle mantenere la numerazione di “secondo” dei Re di Savoia e non di “primo” del Regno d’Italia. Da ricordare che nel 1911 fu solennemente celebrato il 1° cinquantenario del Regno d’Italia; dopo altri cinquant’anni si arriva al 1961 che si cambia in Centenario dell’Unità d’Italia, come suddetto.
Riassumendo: l’anno 1961 è stato il centenario del Regno d’Italia ( e non dell’Unità) e quindi il 2011 è stato il centocinquantesimo, sempre del Regno d’Italia!
E’ chiaro quindi che la data che si vuole attribuire all’Unità d’Italia risulta dai confini geografici della penisola italiana. Chiarito questo concetto, ci basta ricordare che nell’anno 1861 non era ancora affrancata l’italianità del Veneto (che avvenne nel 1866) nonché del Lazio e di Roma Capitale (che avvenne nel 1870). Siccome ancora mancavano i territori del Veneto e di Trento e Trieste dobbiamo affermare che solo con la presa di quest’ultimo lembo di terra irredenta si raggiunse la tanto sospirata unità, quindi dopo ben cinquantotto anni e dopo una guerra durata dal 26 maggio 1915 al 6 novembre 1918 e costata ben 650.000 caduti.
Purtroppo il centenario del 1918-2018 è passato senza che l’ufficialità ricordasse al popolo questo raggiunto 1° centenario dell’Unità d’Italia. Concludo quindi, con amarezza e non con giubilo, questo ricordo del 160° anniversario dell’Incontro di Teano, in quanto esso segna per gli Italiani un ritardo di ben 58 anni per la sospirata ed agognata unità.
FOTO 1 (a/b) – Fiesole 17 giugno 1906 - Inaugurazione monumento dell’Incontro di Teano – scultore Oreste Calzolari – medaglia 1906 in metallo fuso – Ø 96 mm. NOTA: questo è il primo monumento che riproduce l’incontro di Teano; il secondo è a Teano.
FOTO 2 – 1907 – “incontro di Teano” – Roma, targa premio tiro a segno nazionale nella ricorrenza del 1° centenario della nascita di Garibaldi – mm 65 x mm 45 , in AE – incisione del Castagnè – S. Jhonson Milano.
FOTO 3 (a/b) – 1960 – medaglia commemorativa del 1° centenario dell’Incontro – coniata dal Comune di Teano – medaglia in AE argentato Ø mm. 28 – Lorioli Milano. La scena è riprodotta dal quadro del pittore Carlo Ademollo.
FOTO 4 (a/b) Ed ecco dopo 100 anni cosa si legge nella medaglia ufficiale di Torino del 1961: Al centro le 4 teste dei fattori dell’unità d’Italia; nella scritta in cerchio si legge:”CENTENARIO DELLA PROCLAMAZIONE DELL’UNITA’ D’ITALIA 1861- 1961” Nel rovescio, a confermare viepiù l’errore del dritto, leggiamo: in alto “TORINO”al centro il Palazzo Carignano in basso in cerchio “17 marzo 1861” – medaglia in AE Ø mm. 33 Affer.
FOTO 5 (a-b-c) – 1911 – serie commemorativa di 4 monete del 1° cinquantenario del Regno d’Italia (£ 50 AU – £ 5 AG – £ 2 AE – 10 c, nel dritto con scene allegoriche) opera dello scultore D. Trentacoste, siglato nel rovescio a tutte e quattro.
FOTO 6 (a/b). Nel 2011 venivano coniate molte medaglie per il cento cinquantenario dell’ “unità d ‘Italia” e quindi tutte storicamente errate, mentre l’unica che risulta parzialmente esatta (Centocinquantenario del Regno d’Italia) è quella coniata dall’U M I (Unione Monarchica Italiana) qui riprodotta. Medaglia 2011 opus Alidori Ø 60mm. AE
NOTA – Nel rovescio di quest’ultima medaglia, nella cartina d’Italia, sono evidenziati i contorni del Lazio e del territorio di Trieste, non facenti ancora parte del Regno d’Italia, ma è incredibilmente assente il territorio del Trentino: segno dei nostri tempi, caratterizzati dalla perdita costante dei neuroni legati alla storia, malgrado la buona volontà.
Basta il pensiero, trasformato in piccolo omaggio floreale, per fare memoria di coloro che sacrificarono la vita nel nobile intento di contribuire al progresso della civiltà.
“..è la nostra vita che può dare un significato e una ragione rasserenatrice e consolante alla loro morte, e dipende da noi farli vivere o farli morire per sempre”.
di Paolo Macoratti
E’ curioso come l’attualità di avvenimenti di cronaca, come la tragica morte dell’uomo di colore George Floyd, avvenuta a Minneapolis, nello Stato del Minnesota (USA) il 25 maggio 2020 ad opera di alcuni poliziotti assassini, e le conseguenti proteste, violenze e nuove uccisioni, peraltro non ancora esauritesi, possa dare lo spunto a talune persone, rispettose della storia risorgimentale del nostro Paese, di intraprendere una iniziativa che porti alla pubblica attenzione il nome di un altro uomo di colore caduto a Roma il 30 Giugno 1849, nell’intento di difendere la Repubblica Romana dall’assalto dell’esercito francese: Andrés Aguyar.
Per George Floyd, per la crudele morte subìta, resa ancor più tragica dalle immagini pubblicate sulla rete, si è scatenata l’indignazione di mezzo mondo, ma anche una serie di azioni contro monumenti e statue di uomini del passato finalizzate a mantenere alta l’attenzione dei media sull’irrisolto problema del razzismo, piaga mai sanata completamente. Uno di questi movimenti internazionali è il Black Lives Matter.
Ed ecco qui la mossa audace e “garibaldina” di Matteo Manenti, da sempre impegnato nella difesa dei valori fondanti la nostra Costituzione repubblicana e attivo per il bene della comunità e l’assistenza ai più deboli: coinvolgere il movimento romano dei Black Lives Matter nella “costruzione” di una statua e non nel suo abbattimento! Quale migliore occasione per proporre al Comune di Roma di dedicare ad Andrés Aguyar, unico garibaldino di colore (l’altro si chiamava Costa, scomparso in Uruguay) un’”ERMA” al Gianicolo? Da qui la petizione per la raccolta firme alla Sindaca Raggi (da cliccare a fine articolo).
Chi era dunque Andrés Aguyar? Era stato fedele compagno e devoto di Garibaldi e Anita in Montevideo, seguendoli nei loro viaggi e nelle loro battaglie, insieme alla Legione Italiana. Era tanto entusiasta degli Italiani che non volle abbandonarli alla loro partenza per l’Europa nel 1848. Racconta Giuseppe Garibaldi:” Andrés Aguyar era una di quelle paste d’uomini che natura formò per essere amati. Tranquillo, buono, freddo al pericolo, era prevenente per tutti coloro che sapevano destare la sua simpatia. Il suo colore era il puro nero ebano, senza miscuglio; colore che vale il biondo ed il bruno delle diverse razze europee. Aguyar era di forme atletiche e perfetto cavaliere (non di quei ridicoli cavalieri, di cui son sempre piene le quarte colonne dei giornali ufficiali e che non si sa per che diavolo siano stati creati cavalieri,) ma cavaliere nel vero senso della parola, cioè di coloro che, quando inforcano un cavallo, v’innamorano per la leggiadria ed il garbo con cui si lanciano e si posano in sella. Egli era nero, ma non africano; nato nella campagna di Montevideo da genitori africani, possedeva la vetustà delle forme caratteristiche del creolo. Destinato sin dall’infanzia a domare i cavalli nella estancia del general Aguyar – di cui i parenti del nostro nero erano schiavi, poi liberati dall’avvenimento della Repubblica – ,egli aveva passato tutta l’attiva sua gioventù in quell’arduo e marziale maneggio. Domatore di cavalli, non era strano ch’egli fosse perfetto cavaliere. E chi ha percorso l’America meridionale ricorderà che gran parte dei domatori appartengono alla razza nera, certo indebitamente per tanto tempo disprezzata e manomessa”. (Brano tratto da “La vita di Giuseppe Garibaldi – Gustavo Sacerdote Milano 1933)
VIDEO andresaguyar.mp4
PETIZIONE https://tinyurl.com/ydyrmdlv
Il ricco calendario di eventi del 2019, nel 170° della Repubblica Romana, è solo un ricordo! Oggi siamo purtroppo costretti a celebrare l’anniversario della battaglia del 30 Aprile 1849 solo dalle pagine di questo sito. La pandemia da coronavirus non ci permette di incontrarci, abbracciarci e vivere la memoria di quei gloriosi giorni del nostro Risorgimento. Tutto ciò non ci impedisce, però, di dedicare il forzato arresto alla storia e alla cultura. Riproporremo, pertanto, alcuni brevi filmati della prima storica celebrazione del 30 Aprile a Porta Pertusa, del servizio di Rai3 sulla scomparsa del diario di Paolo Narducci, primo caduto della Repubblica Romana, e la premiazione al Sacrario dei caduti per Roma del concorso “Alberto Mori” 2019.
Inoltre, per approfondire più dettagliatamente i fatti accaduti in quel 30 Aprile 1849, riportiamo il brano dello storico Francesco Domenico Guerrazzi tratto dall’Assedio di Roma, scritto nel 1864, e il documento del Fatto d’armi del 30 Aprile, uscito in data 5 maggio 1849.
https://www.youtube.com/watch?v=FfDWlA9oMUM
https://www.facebook.com/watch/?v=2698858386853235
https://www.garibaldini.org/2019/04/appuntamento-30-aprile-2019/
LO ASSEDIO DI ROMA Francesco Domenico GUERRAZZI LIVORNO – 1864
30 aprile 1849: la prima battaglia
I Francesi giunti al bivio della strada di Civitavecchia distante 1500 metri da Roma non si bipartirono, ma conforme loro persuade la consueta superbia tirano innanzi di conserva per la via che mena a porta Cavalleggieri. Di tratto in tratto incontravano scritto sui muri, ovvero sopra cartelli pendenti da pertiche l’articolo quinto della loro costituzione, e i Francesi leggevano e ridevano, usi a tenere le costituzioni in pregio di fazzoletti da naso, e peggio. Anco il giornale del Generale Vaillant ricorda queste iscrizioni; erano della libertà che trucidavano, ma il soldato non volle vederci altro, che sceda, e ne tolse argomento a inviperirsi, ché il disposto a male fa di ogni erba fascio per attutire il grido della coscienza. Il Masi pistoiese gentile intelletto, caro alle Muse, e sacro affatto agli studi letterari di subito diventa non pur soldato, ma capitano, intrepido quanto arguto; da ciò piglino esempio quei soldati a cui par bello ostentare barbarie quasi ornamento della milizia: il soldato italiano è bene che sappia come i supremi capitani antichi ponessero il brando a segno del volume, che leggevano meditando, anco in campo; Bruto vigilava la notte precedente alla battaglia di Filippi su i libri di Platone, e Cesare nel tumulto di Alessandria null’altro ebbe a cuore eccetto salvare i suoi commentari i quali tenne levati sopra l’acqua con la mano sinistra, mentre notava con la destra; e degli altri mi taccio. Dei moderni soldati italiani basti dirne questo, ch’essi (parlo di quelli che militarono per la repubblica e per lo impero) decorarono la Paria delle migliori versioni delle opere greche: negli zaini loro portavano pane, e libri, quello pel corpo, gli altra per l’anima.
Il Masi pertanto difendeva la porta dei Cavalleggeri, l’altra detta Angelica, e le mura del Vaticano con la seconda brigata di milizia cittadina, e col primo battaglione leggero di fanteria. Il colonnello Calandrelli mirabile a trattare artiglierie, dal fato avverso condotto a dare la opera, e la vita in lontane regioni per causa non nostra, e né manco della libertà sosteneva co’ suoi cannoni da Santa Marta il Masi. Appena l’uffiziale posto a vedetta in cima alla cupola di San Pietro accennò lo appressarsi dei Francesi i campanoni del Campidoglio e di Montecitorio chiamarono a raccolta; della qual cosa menavano i nemici inestimabile allegrezza, taluno reputando che sonassero l’Angelus, altri a gloria per riceverli in trionfo. Il Petrarca nostro lamenta che ai suoi dì con le campane si desse il segno di battaglia:
«Né senza squille si comincia assalto «Che per Dio ringraziar fur poste in alto.»
Il Petrarca se intendeva favellare di guerre fraterne, senza fallo aveva ragione, se poi di battaglie in difesa della Patria certo ebbe torto; però che la vita offerta in sacrificio della Patria minacciata dal furore straniero, sia la migliore preghiera, anco a giudicio dei sacerdoti di Cristo.
Ma il cannone del Calandrelli ecco, che arriva a levare via lo inganno delle campane; due palle una sopra l’altra aprono un pertugio sanguinoso nella colonna stipata che si avanza. Allora degli assalitori alcuni sbandaronsi pei vigneti, o ripararono dietro gli archi dell’acquedotto dell’acqua Paola, altri sparpagliaronsi su i clivi fiancheggianti la strada, affermano per comando del Generale, e sarà, ma lo sbandarsi l’ordinava il cannone del Calandrelli, non l’Oudinot. Però dietro ai muri gli assalitori presero a trarre colpi, pur troppo bene aggiustati, atteso la molta loro prestanza, e la bontà delle armi. Il sangue, che primo lavò le mura di Roma dalla secolare infamia fu versato da Paolo Narducci romano, anima grande, che memore delle glorie antiche non pianse, ma esultò vedendosi tronco il fiore della gioventù: misero chi vive troppo! Dopo lui cadde Enrico Pallini aiutante maggiore mentre confortava con le parole, più con lo esempio i soldati ad usare ferocemente le mani; altri pure, massime artiglieri, lamentammo noi morti o feriti, i nomi dei quali sommerse nelle sue acque buie l’oblio; di qui nasce, e non può fare a meno, scompiglio; il fuoco delle nostre batterie rallenta, di che approfittansi gli avversari, i quali, così ordinando il capo di squadrone di artiglieria Bourdeaux piantano su certa altura due cannoni; da questa però poco frutto cavavano, lontana dal bastione 900 e più metri; allora partonsi di galoppo con due altri pezzi di artiglieria, e non curando mitraglie, corrono gli artiglieri francesi a collocarne altri due in batteria dietro il riparo di un’arco degli acquedotti; i nostri consolata un po’ la tristezza, ripigliano il trarre; pietà ha luogo nei combattimenti più o meno secondo la indole benigna, ma in tutti prevale l’ira; tre quarti belva l’uomo fuori di battaglia, in mezzo della battaglia tutto.
I Francesi obbedendo ai comandi del Capitano senza stringere ciglio secondo ché vogliono la disciplina militare, e il proprio ardimento attraverso un turbine di ferro e di fuoco si avventano contro i bastioni: erano due reggimenti di linea, il 20, e il 33; li conduceva il generale Molliere cercando una via per penetrarci dentro; i bersaglieri francesi rincalzavano l’audace impresa con lo spesseggiare di mortalissimi tiri; per essi stramazzò spento il brigadiere Della Vedova soldato vecchio, e modesto quanto animoso; ne andarono malconci di ferite il capitano Pifferi, il tenente Belli, il cadetto Mencarino, e il maresciallo Ottaviano; insomma tanto per loro si operò, che uno dei nostri cannoni tacque per manco di artiglieri; tacque, ma per poco, chè sottentrano ai caduti il soldato De Stefanis, il caporale Ludovich, e il capitano Leduc con sorte punto migliore dei primi però che entrambi stramazzassero a piè del pezzo colpiti nel petto; Leduc nacque belga, ma dove si combatteva per la libertà quivi era la sua Patria: illustre per gesti operati contro gli Austriaci presso Este, dove li vinse prima, poi gli affamò con lo impedire che fino a loro arrivasse la vettovaglia. Riposa in pace nella terra dei nostri padri, o eroe, e come avesti per madre la Italia, ella ti onora per figlio raccomandando la tua memoria ai più tardi nepoti: altra mercede ella non può darti; nè altra ne vorresti tu generoso.
Nel cuore degl’Italiani accesi dallo amore di Patria la smania della vendetta fa come vento in fiamma; dalle mura di Roma grandina ferro, chè il celere trarre risponde al palpito concitato, nè ci resistono i Francesi i quali laceri, duramente respinti danno indietro addopandosi alle asperità del terreno, o cercando in luoghi meno esposti iparo. Ira fosse o virtù tornano ad arroventarsi i Francesi, che balzando fuori dai ripari con raddoppiato ardire piantano cannoni nel bel mezzo della strada; un’altra batteria assestano sopra la terrazza di una casa, e due volte irrompono contro le mura, e due infrangendocisi dentro si ripiegano addietro scemi di morti, e grondanti sangue. Se cerchi la causa della bestiale ostinazione la troverai agevolmente, ma agevolmente non la crederai: pure è vera, e la racconta lo stesso Giornale del Vaillant; il supremo capitano Oudinot teneva per fermo che nel luogo dove spingeva i suoi occorresse una porta, la quale immaginava potersi fracassare mercè alcuni sacchi di polvere a questo fine portati dagli assalitori: per voglia di credere quanto più giova rimase ingannato, però che mai in cotesto lato ebbero porta le mura di Roma, bensì una postierla detta Pertusa da tempi remotissimi murata, e rincalzata per di dentro di terra. Oh! se le male fatte loro i Francesi non rammendassero con la soverchianza delle armi come piangerebbero lutti patrii più lunghi e più miserabili dei nostri. Tuttavia questo errore scemerebbe la censura dell’altro errore commesso dall’Oudinot pel disegno di assalire ad un punto due luoghi tanto fra loro distanti, porta Cavalleggeri, e porta Angelica. Poichè a prova di sangue i Francesi rimasero chiariti come di là non si passava deposero il pensiero di fare cosa, che approdasse da cotesta parte.
Intanto il Garibaldi dall’alto del casino dei Quattro Venti notava l’assalto, e il respingimento dei Francesi, sicchè gli parve cotesto tempo da mostrarsi percotendo di fianco: però spinse fuori della porta San Pancrazio alcuni drappelletti alla spicciolata, affinchè cauti ed improvvisi cascassero addosso al nemico, il quale dal canto suo stando su l’avvisato accortosi della insidia spiccò senza indugio un rinforzo per sostenere i cacciatori di Vincennes commessi alla cura della difesa di quel lato, onde non venissero sopraffatti.—I nostri volevano spuntarla, i Francesi risoluti a vincere pur essi, o a morire; in loro prepotente lo studio di mantenere l’antica fama di prodi, nei nostri il furore di torsi via dalla faccia la turpe nota di codardi: si venne a battaglia manesca dove si adoperarono non pure le armi, ma i morsi; rotti gli ordini ne successe una baruffa promiscua donde uscivano aneliti, guaiti, e aria densa, e sangue. Qui tra i primi periva il capitano Montaldi.
Chi egli fosse gl’Italiani imparino dallo stesso Garibaldi, il quale favella di lui nelle sue memorie inedite in questa maniera: «chi conobbe Goffredo Mameli, e il capitano De Cristoforis avrà idea delle fattezze del Montaldi e della età sua; nella pugna feroce e pure pacato come se fra amici si trattenesse in geniali colloqui; di lettere sapeva meno dei due rammentati, ma pari a loro in costanza intrepida, ed in militare virtù. Fino dagl’inizi egli fu parte della legione italiana a Montevideo, giovanissimo si versò in innumerevoli combattimenti per terre straniere, ma quando la Patria ebbe bisogno dei suoi figli, tra i primi il Montaldi passava il mare per offrirle tutto il suo sangue. Genova può incidere con orgoglio il suo nome a canto a quello del suo poeta, e guerriero Mameli: egli esalò la sua grande anima per diciannove ferite!» Caddero pure per non rilevarsi più i tenenti Righi, e Zamboni; feriti rimasero il giovane Statella figliuolo del generale napolitano, il maggior Morrocchetti, e i tenenti Dall’oro, Tressoldi, e Rota. Di questi altro non seppi, che virtuosi furono e degni figli d’Italia; più lunga storia narrerò del Ghiglione genovese: ogni ricordo è sacro; balusante negli occhi, o come oggi si direbbe miope si cacciava imperturbato davanti a tutti, però che, egli diceva, avesse bisogno di vedere il nemico da vicino, ma ciò non gli bastava, onde sovente si recava la lente all’occhio per mirare dove avesse a trarre, poi quinci rimossala, sparava, e sparato a pena col suo occhialetto sul naso speculava se avesse imberciato giusto; mentre così si travaglia, stando con la gamba sinistra sporta innanzi, ecco una palla francese ferirlo nei glutei, e cadde; lo soccorse tosto Pietro Ripari chirurgo, uomo di cui la Italia avverebbe mestiero crescesse il seme mentre pur troppo a mano a mano se ne perde la razza. Ora egli possedeva un cavallo vecchio, e magro, tuttavia inglese schietto già appartenuto al Duca di Torlonia di cui la storia come stranissima merita essere raccontata. «Così concio il giovane Ghiglione diceva al Ripari, mi toccherà starmene a letto per mesi, però tu piglia il mio baiardo e servitene.» Con questo cavallo il Ripari andò a Palestrina, tornato a Roma lo lasciava infermo in mano al manescalco perchè lo guarisse, senonchè gitosene a Velletri una sera lo incontra alla fontana dove lo avevano condotto ad abbeverarlo; di che egli stizzito mentre cerca chi fosse colui il quale a quel modo alla spiccia tornava in uso la pristina comunione delle cose trova essere stato il Mameli; glielo lasciava il Ripari e fu sventura, perchè il Mameli incavallato sopra cotesto altissimo animale potè facilmente essere tolto di mira, e vi ebbe la ferita ond’ei miseramente perì.—
Scrivono taluni, che vi rimanesse ferito anco Ugo Bassi, ma non è vero; cadde prigione soltanto ed ecco come: di lui diremo sparsamente più volte, intanto si sappia com’ei preso da sacro furore in guerra sembrasse una spada brandita dall’angiolo della sterminazione: in pace tanto nel suo petto soprabbondava l’amore, che non pure amava i propri simili, ma di smisurato affetto proseguiva anco le bestie; pari in questo a San Francesco, che chiamava sue sorelle le rondini, e fratello il lupo; però non è da dirsi quanto egli fosse attaccato a certa sua cavalla storna compagna inseparabile dei suoi perigli e delle sue pellegrinazioni: ora mentre montato su questo animale egli scorre lungo la fronte del nemico, tutto fiamma nel volto con forti parole soffiando nella virtù dei nostri perchè divampasse più gloriosa, ecco otto colpi di moschetto mandano sottosopra cavalcatura, e cavaliere: per fortuna tutte le palle penetrarono nel corpo alla bestia, il Bassi andò incolume, che rilevatosi indi a poco e vista morta la compagna le s’inginocchiò a lato, con molto pianto abbracciandola e baciandola; le chiuse gli occhi, le recise parte dei crini e se li ripose in petto conforme costumano gl’innamorati con le chiome dell’amata donna: i Francesi lo colsero in cotesto atto, lo pigliano, lo spogliano, e se lo cacciano innanzi percotendolo con isconce battiture, in modo pari a quello che gli Spagnuoli praticarono con Ignazio da Loiola; se non che la leggenda narra, che Ignazio rapito in estasi o non sentiva i calci, o gli aveva per grazia, mentre il povero Ugo, io metto pegno, che non ne provasse piacere.
Le storie raccontano che il Generale Garibaldi in cotesta battaglia riportasse contusioni non ferite, e male si appongono. Verso sera del 30 egli salito su di un poggiolo di pietra porgeva lodi e grazie agli studenti che in cotesta giornata combatterono come persone cui paia ventura cambiare la vita con la fama di martire per la Patria, e gli animava a perdurare nell’alto proposito, gli avrebbe avuti desiderati compagni in altre prove; intanto abbassati gli occhi e visto il suo chirurgo Ripari piegandosi verso lui gli sussurrava nell’orecchio: «venite stanotte da me, perchè sono ferito, ma nessuno lo sappia.» Difatti egli aveva riportato una ferita di palla nel fianco destro, che senza penetrare dentro gli aveva lacerato i muscoli dell’addome; pericolosa non fu mai, molesta sempre, e di guarigione difficile, sicchè non ne uscì guarito, che pochi giorni prima della caduta di Roma;—egli ne tacque sempre, ora lo dice, ed il Ripari, che tutte le sere gliela medicò conferma.—Ma questo accadde sul declinare del giorno; adesso il Garibaldi non ha tempo per pensare alle sue ferite; chiamato rinforzo e venuto da Roma condotto dal colonnello Galletti si scaglia con nuova lena contro i Francesi, i quali sopraffatti si ritirano; scopo del Garibaldi era circuire il nemico, ed assaltatolo con tutte le forze alle spalle troncargli la ritirata su Civitavecchia, e costringerlo a deporre le armi; e certo gli riusciva, se in cotesto suo moto mettendosi diritto alle batterie romane non fosse stato lacero dai fuochi di quelle, le quali traevano senza posa su la massa non distinguendo amici da nemici, ed anco se i Triumviri gli mandavano oltre i primi nuovi rinforzi; nonostante ciò il Garibaldi prosegue il corso della prospera fortuna, si lascia addietro la villa Valentini occupata da un battaglione francese, e si spinge fino alla villa Panfili, che espugna a furia di baionetta.—I Francesi da per tutto in rotta: intanto quattro compagnie dei nostri si dispongono a conquidere il battaglione della villa Valentini tutta cinta di mura; il Bixio siccome lo porta l’ardore del sangue afferra il cancello, che chiude la cinta e squassando forte e urlando da spiritato tenta schiuderlo, mentre le palle strepitano schiacciandosi contro i ferri del cancello rasente alle dita dell’audace soldato; altri non meno animosi gli si uniscono, e con forze riunite lo schiudono; nè i Francesi aspettano gli assalitori, presi dallo spavento si danno alla fuga. Aperto appena il cancello una spaventosa apparizione agghiaccia i cuori dei più feroci: un cavallo e un cavaliere tornano dal campo verso Roma, quello muove i passi a stento, l’altro vacilla a destra e a manca ciondolando il capo; aveva abbandonate le redini, che strisciavano sul terreno: le mani teneva pendenti ai lati della sella; la criniera, il collo, il petto, le gambe davanti, lo bordature del cavallo grommose di sangue; di sangue del pari rappreso il ventre e le gambe del cavaliere sordidate: il volto di lui più che cera bianco, ed inclinato sul petto: qualche palla ferendolo nella grande aorta ventrale lo aveva di certo concio a quel modo. Veruno ebbe ardimento di fermare cotesto cavallo che se gli bastò la lena sarà entrato in Roma, e lento lento tornato alla stalla consueta per morirvi a canto al suo signore già morto. Cotesto cadavere pauroso era di giovine leggiadro, e ricco a Vicenza: apparteneva alla cavalleria di Masina dove pel suo valore ottenne sollecitamente grado di ufficiale. Il Masina, che venuto a Roma per ragguagli e per ordini tornava a sprone battuto al campo incontra il morto a cavallo, e ferma in quattro, poi si mette a guardarlo con occhi sbarrati; lo riconobbe, si diede di un pugno nella fronte prorompendo in fiero sacramento, poi si slanciava a briglia abbattuta, e scomparve.—La madre del giovane dimorava lontana, e quando le annunziarono la morte del figlio le tacquero certo i particolari del caso, se ella lo avesse veduto l’avrebbe fulminata il dolore.
I Francesi movono lamento di certo strattagemma adoperato dai nostri per fare di un tratto prigioni un due centosessanta Francesi: ecco come sta la faccenda. Il maggiore Picard con trecento allo incirca soldati del 20° di linea su le ore antimeridiane aveva preso certa posta in prossimità alla villa Valentini, e quivi stette fino al termine della giornata, il quale venuto, alcuni dei nostri furbescamente presero a sventolare fazzoletti bianchi mostrando volersi abboccare col Maggiore, cosa da questo più che volentieri accettata, allora gli dissero le milizie francesi entrate per accordo in Roma, andasse a vedere, lo condurrebbero eglino stessi; il Picard accettava, e raccomandato prima ai suoi che vigilassero su le armi, li seguiva. Vedovo il corpo del suo capo lo circondarono i Romani due o tre volte più numerosi, e sforzatolo a deporre le armi, lo menano prigioniero a Roma. Posto vero il fatto, paiono peggio che strani i lamenti; gli strattagemmi consueti in guerra; la morale condanna quelli, che arieggiano di tradimento, e di ferocia codarda, si accomoda agli arguti; la ragione di stato si approfitta di ambedue: i Francesi poi immaginosissimi a inventarne dei nuovi, ma della prima specie, in copia, scarsi i secondi: Affrica parli, e parlerà anco Roma. Il comandante, il quale lascia per lusinghe i suoi soldati peggio, che stolto; ed egli non unico a condurli; dopo lui rimanevano altri ufficiali quanto egli capaci, e forse più di lui; nè i nostri li colsero alla sprovvista, dacchè partendosi, egli ordinava loro stessero vigilanti: dunque non cessero per inganno bensì per forza di arme; tagliati fuori essi giudicarono ogni resistenza vana: per me credo che tale operasse il Picard per non trovarsi presente alla resa volendo piuttosto comparire gaglioffo, che poco animoso.—Però diverso raccontano taluni dei nostri l’avventura e affermano il Bixio avere messo le mani addosso al Picard tentennante ad arrendersi, il Franchi di Brescia avere fatto altrettanto col sottotenente Rennelet, ed ambedue disarmati, e bendati trassero al Generale Garibaldi il quale li mandò al Ministro Avezzana.
Poichè alla porta dei Cavalleggeri fu respinto lo assalto non potendo patire i Francesi di aversene a tornare indietro con l’onta di una sconfitta (molto più che a rimprovero o a scherno della pecoraggine loro i nostri allo strepito delle artiglierie, e delle moschetterie alternavano i suoni dell’inno nazionale di Francia, la marsigliese, capace un dì come vantava il suo autore a movere centomila uomini, ed oggi diventato tanto innocente presso cotesto popolo, che lo insegnano per sollazzo ai pappagalli.—A siffatte ruine può precipitare un popolo per manco di virtù sua, e per malignità altrui!) il capitano Fabar, quel desso, che venne già in Roma per abbindolare i Romani voltosi al Generale Oudinot così prese a favellargli: «Generale ho riconosciuto più innanzi certa stradella la quale senza pericolo di restare offesi dal fuoco dei bastioni conduce alla porta Angelica, dove accadrà il tumulto concertato per aprircela.» L’Oudinot ridotto ad appigliarsi ai rasoi, crede al parabolano, ed ordina al Generale Levaillant di mettersi dietro al capitano con la seconda brigata, e due cannoni. Questo sconsigliato caccia dentro le milizie nel sentiero che si aggira per le muraglia dei giardini del Vaticano, e di vero potè procedere nascosto fino a duegento braccia dalla porta Angelica, ma appena i nostri lo videro sboccare fuori della strada, presero a sfolgorare la testa della colonna con una grandine di palle. La brigata balenava alquanto, non retrocesse; all’opposto si attelò di faccia, e postò i due cannoni. Di qua e di là si rinfocola la battaglia, ma sopraggiungono di corsa i carabinieri romani, il Calandrelli parve in quel dì trasformarsi nel centimano Briareo con le sue artiglierie: la morte menava baldoria, che i Francesi cadevano giù come insetti strizzati dal primo freddo di novembre; i cavalli dell’artiglieria esanimi a terra, e a terra pure percosso per non rialzarsi il Fabar. Possano gli oltraggiatori della nostra Patria non provare destino migliore del suo! Anco qui laceri i Francesi ebbero a ripararsi a frotte scompaginate per gli avvallamenti del terreno, o dietro ai muri continuando il fuoco scarso e languido anco per parecchie ore; i cannoni rimasero derelitti; potevano i nostri andare a pigliarli, ma non essendo consentito l’uscire, alle due dopo la mezzanotte i Francesi vennero a tirarli di cheto a braccia; a braccia pure si portarono i feriti.—Mille e più dei nemici morti, o feriti, o prigioni resero funesto per la Francia quel giorno; noi avemmo a rimpiangere dei nostri meno di duegento fra morti e feriti; e ci contiamo anco due cittadini morti, e quattro feriti; chi fossero i morti non mi occorre scritto; i feriti due giovanotti uno di 14, e l’altro di 16 anni, Mondavi Michele Romano il primo, l’altro Paolo Stella della legione romana con tre ferite, Bernardino Proietti da Spoleto ebbe il corpo trapassato da un pezzo di mitraglia; Giuseppe Caterini da Foligno con gran voce esclamò: viva la repubblica mentre gli amputavano il braccio ferito. Se la storia registra di Giovanni delle Bande nere il quale resse la candela al chirurgo mentr’ei gli tagliava la gamba offesa ci è parso giustizia non tacere la virtuosa ferocia del cittadino romano. Respinti da per tutto, a ragione paurosi di essere circuiti ed oppressi, o fatti prigionieri i Francesi passarono la notte su le armi, e la mattina maravigliando che quanto temevano non accadeva si ritirarono a Castello di Guido. Il terrore dei Francesi non era indarno, imperciocchè i generali Garibaldi, e Galletti pestassero mani e piedi per ottenere rinforzi, e sterminare il nemico, agevole il moto dacchè dalla villa Panfili, e dagli Acquedotti dominando la via Aurelia antica con celeri passi si poteva precorrere l’Oudinot a Castel di Guido, e chiudergli la strada; i Francesi poi rifiniti da dieci ore di combattimento, senza cavalleria, che nella ritirata li proteggesse, e sgomenti come porta la indole loro quando ne hanno tocche; noi altri avevamo due reggimenti di linea di riserva, due reggimenti di dragoni a cavallo, due squadroni di carabinieri, e il battaglione dei bersaglieri lombardi condotti dal colonnello Manara: questi nella giornata del 30 stettero su le armi, e non presero parte alla battaglia, perchè traditi a Civitavecchia davano la parola in pegno di non combattere prima del 4 maggio, e tanto bastava all’Oudinot fidente di tenere Roma prima di quel giorno, conto che gli andò proprio fallito; per ultimo le forze di un popolo ardente d’ira e di pietà! Si oppose Giuseppe Mazzini, e con lui gli altri Triumviri per risparmiare alla Francia la vergogna della piena sconfitta, e per non isperdere invano il sangue dei nostri giovani soldati combattendo allo aperto con veterani spertissimi: di tale partito i più degli scrittori riprendono il Mazzini, taluni spiegano il suo concetto, ma non lo lodano: di vero se la Francia avesse voluto procedere sempre con la consueta iattanza ne aveva tocche troppe, e male per non doversi vendicare, e se all’opposto con giustizia quanto più solenne la lezione, tanto più persuasiva: e poi co’ Francesi due nespole delle buone non guastano nulla; la esperienza ammaestra che fornita una impresa con la sua ruina si procede riguardosi a incominciarne un’altra, mentre la mezza batosta porge quasi lo addentellato a ripararla: arrogi l’acquisto delle armi, e alla verosimiglianza che di tanti prigioni in mano potenti per credito, e per autorità qualcheduno si mettesse paciere di mezzo proponendo condizioni comportabili. Per me giudico, che a perseverare nella lotta più che altro animasse il rapporto dell’Oudinot al Ministro della guerra a Parigi, il quale con l’arte nella quale i Francesi non conoscono non dirò pari, ma nè anco secondi affermava a faccia tosta: «non era nostro intendimento assediare, ma riconoscere la piazza, e ciò compimmo; così che dopo le nostre grandi guerre non si conosce per le nostre armi fatto più di questo glorioso!» E da tanto ch’ei lo giudicava glorioso che per l’angoscia ne infermò, e il Rusconi visitandolo lo rinvenne pallido e scontraffatto, e male con un diluvio di parole dissimulante l’ansietà dell’animo suo. All’opposto un medico francese scriveva agli amici suoi così: «temevamo una sortita e nel cammino occupato da tutte le parti, mi perito a dire che mai sarebbe accaduto; basta, come Dio volle, il nemico si rimase dietro le mura.» E nè anco questo è vero, però che il Garibaldi il giorno dopo li seguitò con la legione italiana, e qualche squadrone di cavalleria, ma indi per ordine del Governo retrocesse a Roma. Fra le altre non so se io mi abbia a dire fisime o bugiarderie dei Francesi ci fu quella di negare i danni per essi recati ai monumenti di Roma, senza accorgersi che smaniosi della lode per le virtù che non hanno, da sè medesimi si screditano nello attribuirsela per cose che fra loro contrastano, nè possono stare insieme; ed invero come avrieno potuto battere Roma dal lato del Vaticano senza offendere il Vaticano? Il generale Torre narra che una palla cristianissima frantumò certo immane triregno di travertino simbolo del potere temporale rotto per sempre dalle potenze cattoliche quando per forza di arme dentro le carni di Roma anzi d’Italia a mò di chiodo della passione lo riconficcarono. I rapporti dell’ingegnere Grass testimoniano quante palle di cannone e quante di moschetto offendessero il palazzo, e la basilica del Vaticano: due palle bucarono l’arazzo di Raffaello rappresentante la predicazione di S. Paolo nell’Areopago e il pezzo rimase attaccato alla palla: quattro fracassarono il tetto della cappella sistina; insomma menarono strage in quel giorno, e peggio fecero poi. Enrico Cernuschi per la sua piacevolezza, e per lo indomito ardire delizia del popolo romano andava dicendo non si affliggessero per cotesti danni, perchè la Francia aveva promesso pagarli e gli avrebbe pagati, che rigida osservatrice di sue promesse era la Francia, e ne porgeva fede cotesto caso perchè avendo eglino bandito volere entrare in Roma ci erano entrati di fatto; veramente non vincitori, bensì prigionieri, ma ciò non toglieva che al compito assunto non avessero dato recapito Comecchè io abbia tolto a favellare unicamente dei fatti di arme dello Assedio di Roma, non devo tacere delle donne patrizie o no ma nobilissime tutte che si consacrarono alla cura dei feriti.—Taluna di loro poi girò nel manico, e da per sè volle guasta la sua bella fama; anco gli scrittori clericali non si rimasero da turpi contumelie, ma se questi insudiciano non però fanno macchia, ed io con dolore sì ma non senza orgoglio registro, che Cristina Trivulzio principessa venne meno a sè medesima, chi crebbe fu Giulia Modena popolesca. Quando ci fu mestieri panni pei feriti si rinvenne mezzo spedito a procurarli oltre il bisogno; si tolsero carrette, e ad esse dietro parecchi uomini dabbene aggiravansi per la città con voci pietose facendo appello alla carità dei cittadini, e dalle finestre furono viste volare giù per la strada lenzuola, e di ogni maniera biancherie. Un vecchio, si narra, si condusse per verecondia dentro l’androne di certa casa, e quivi toltasi la camicia la porse lacrimando per sollievo ai feriti; senz’altro costui avrebbe offerto il cuore, e questi casi occorrono sempre là dove il popolo commosso da passione buona si lascia in balìa del proprio affetto: più arduo sciogliere i cuori impietriti dalla ira sacerdotale, però che a loro paia essere religiosi mostrandosi crudeli; tuttavia nelle donne prevale sempre la pietà, massime se le sieno giovani; di vero la mirabile carità delle signore conviventi nella casa di Tor de’ Specchi rappresentate dalla cittadina Galeffi dette il destro al virtuoso Aurelio Saffi di volgere loro queste nobilissime parole: «a fronte del sublime compenso, che queste amorevoli cittadine aspettano in un mondo migliore dalla loro carità, la prima delle virtù cristiane, i Triumviri ardiscono appena esprimere a queste gentili anime la più sentita gratitudine in nome della Patria.»
La ferocia dei barbari quantunque addolori pure non contrista tanto come la ipocrisia dei popoli, che si vantano civili, ed è ragione, che i primi in parte scusa l’ignoranza, mentre i secondi commettono due mali, il danno, intendo dire, e la menzogna per onestarlo; e poichè i Francesi bandiscono ai quattro venti la bandiera loro sventolare sempre colà dove appaia una causa civile a difendere, appena possiamo credere con quanta sfrontatezza negassero le ingiurie, che con le palle di cannone, le bombe, e perfino co’ moschetti recassero ai monumenti romani: si leggono tuttora i rapporti degl’Ingegneri commessi a verificare i danni, ed a ripararli; il pezzo lacerato, dall’arazzo del Sanzio senz’altro testimonio saria bastato a condannare i Francesi in giudizio. Gli è tempo perso; negli amici nostri ribolle sempre il mal sangue di Brenno; forse un giorno si correggerà tutto, ma la natura dei popoli cacciata via dalla porta torna dalla finestra.—Affermarono altresì, che i feriti loro patissero truci asperità dai nostri, ed i prigioni ingiurie; coteste le sono turpitudini che non importa rilevare nè anco; chi gli abbandonava senza pur visitarli fu un Forbin de Janson oratore di Francia a Roma, i nostri non misero differenza nell’opera della carità tra Francesi, e Italiani; anzi concessero, che gli amici loro dal campo venissero a consolarli con la nota faccia, e la favella del natio paese, chè lontani della Patria ogni conterraneo ci sembra parente.—
Nè importa a noi, e sarebbe bassa voglia, chiarire le bugiarderie dei rapporti dell’Oudinot, che francese egli era, ed aveva per dirle più bisogno degli altri; piuttostochè improvvido volle passare per gaglioffo; e tale sia di lui; la superbia offesa gli diede la febbre, e il Rusconi, chè lo vide in quel torno a Castel di Guido scrisse, secondochè notai averlo trovato stravolto, angosciando in mezzo ad un vaniloquio di errori, di minaccie, e di sospetti per non dire paure; poteva acchetarsi ad essere argomento di scusa, dacchè la fortuna delle battaglie stia in mano di Dio, prescelse farsi oggetto di scherno di faccia alla Europa: e’ sono soldati.
Somma la fede nostra come somma la perfidia dei Francesi: i bersaglieri del Manara bene stettero schierati a tutela della città, ma al combattimento del 30 aprile non pigliarono parte perchè riputaronsi vincolati dalla promessa di astenersi dalla zuffa fino al giorno quarto di maggio, e fu coscienza sciupata sia perchè non essi bensì il Preside di Civitavecchia aveva fatto la promessa, nè vincolava perchè estorta a forza e iniquamente, e poi i Francesi non osservarono mai promesse, nè patti: per ultimo quel dabbene Manara che fu quanto onore visse al mondo non andò immune da accusa per parte dello impronto nemico, il quale ardì appuntarlo di essersi rimasto in ordinanza con l’arme in collo durante la giornata del 30 aprile.
Cari amici, buon 75° anniversario del 25 aprile!
Purtroppo, più ci si allontana da quella data di liberazione dal “virus” nazifascista e da quella splendida pagina della Resistenza, chiamata giustamente Secondo Risorgimento, più ci rendiamo conto della precarietà della memoria storica, specialmente ora che siamo in procinto di entrare in un’altra epoca; stagione che già sta causando pesantissime conseguenze in ambito sanitario, lavorativo e sociale. Prepariamoci dunque a una nuova Resistenza, cercando di affrontare con serena consapevolezza il mondo che sta cambiando e anche i nuovi fascismi che si sono affacciati, sotto le più diverse sembianze, alla ribalta di un tempo globalizzato.
Nel giorno che evoca il ritorno alla libertà e alla democrazia, sancite da una splendida Costituzione repubblicana, il nostro pensiero torna alle persone della nostra Associazione che ci hanno lasciato e che avrebbero condiviso con grande partecipazione la ricorrenza:
Alberto Mori – nato a Codogno (Lodi) – classe 1930
Alcide Lamenza – nato a San Donato di Ninea (CS) – classe 1933
De Angelis Carlo – nato a Roma – classe 1936
Gianni Riefolo – nato a Roma – classe 1942
Il più giovane di questi cari Garibaldini degli anni 2000, Gianni Riefolo, è stato un attivo sostenitore delle ricorrenze del 25 Aprile dell’ANPI e della FIAP. Il più anziano, Alberto Mori, ci ha lasciato una testimonianza diretta della Resistenza partigiana al nazifascismo: la sorella Giuditta Mori , che fu staffetta e che subì il carcere rischiando la fucilazione. Di questa donna coraggiosa e sconosciuta vogliamo oggi fare memoria, affiancando i documenti che la riguardano all’immagine indimenticabile dei Fratelli Cervi, a quella di un gruppo di partigiani della Val di Susa e al fazzoletto-ricordo della breve Repubblica della Val d’Ossola, donataci da Alberto.
Paolo Macoratti
La storia si fa con i documenti. Una novità per i simpatizzanti dell’epopea garibaldina e un materiale utile per i suoi detrattori. Ringraziamo Leandro Mais per questo ulteriore contributo.
DOPO NOVANTAQUATTRO ANNI SI RICOSTRUISCE IL CARTEGGIO “LANDI – GARIBALDI”
Una fortunata circostanza ci permette di poter disporre (il caso è veramente raro) dello scritto di Michele Landi (Bologna 1° ottobre 1861) figlio del Generale Francesco Landi, e la risposta (Caprera 1° novembre 1861) di Garibaldi.
Il carteggio si riferisce alle accuse che erano state rivolte al Generale Landi, comandante delle truppe borboniche sconfitte dai Mille di Garibaldi nella battaglia di Calatafimi, riguardanti sia l’inefficienza nel coordinamento delle sue truppe, sia un presunto incasso di una polizza di credito che avrebbe ricevuto dal Banco di Napoli come ricompensa per aver favorito l’avanzata di Garibaldi.
Della prima lettera sappiamo che faceva parte della collezione del grande storico Giacomo Emilio Curatulo. Essa fu acquistata, con tutti gli altri pezzi della collezione garibaldina, dal Museo del Risorgimento di Milano. Questo documento si trova pubblicato alle pagine 210/212 del volume “Scritti e Figure del Risorgimento Italiano”, con documenti inediti. (Emilio Curatulo – Ed. F.lli Bocca, Torino 1926 (vedi foto 1,2,3,4,)
Nel Vol. VI dell’Epistolario di Giuseppe Garibaldi 1983, a pag. 184 n° 2207, è riportata la risposta di Garibaldi, della quale però è citata solo la pubblicazione del Campanella. Sarà gradito sapere, ai lettori, che questa lettera fa parte della mia collezione garibaldina; il testo, vergato da Enrico Albanese e autografato dall’Eroe, è pubblicato a pag. 50 n° 10M nel libro “Giuseppe Garibaldi in 152 lettere e documenti autografi”, a cura di Paolo Macoratti e Leandro Mais – Ed. Garibaldini per l’Italia – Roma 2016. Di questa lettera si riporta la trascrizione.
Leandro Mais
10 M – Al figlio del Generale Landi – Testo scritto da Enrico Albanese e firma autografa di Garibaldi
Caprera 1° Novembre 1861
Mio caro Landi,
ricordo di aver detto nel mio
ordine del giorno di Calatafimi – : che
non avevo veduto ancora soldati
contrari combattere con più valore;
e le perdite da noi sostenute in quel
combattimento lo provavano bene.
Circa i quattordici mila ducati
ricevuti dal vostro bravo Genitore in
quella circostanza – potete assicurare
gl’impudenti giornalisti che ne insulta_
no la memoria, – che 50 mila lire era
il capitale che corredava la prima
spedizione in Sicilia – e che servirono
ai bisogni di quella – non a comperar
Generali. -
Sorte dei Tiranni!.. – Il Re di
———————————————–
Napoli doveva soccombere! – Ecco il
motivo della dissoluzione del suo esercito.
- Ma vostro padre a Calatafimi e nel-
la sua ritirata su Palermo, fece il
suo dovere da soldato! -
Dolente in quanto avete perduto,
vogliate presentarmi alla vostra fami_
glia come un amico e credermi con
affetto. V.ro
G. Garibaldi
Cari amici Italiani,
grazie alla segnalazione di Maurizio Mari, Segretario della Società Conservatrice del Capanno Garibaldi di Ravenna, potete ascoltare uno dei pochi esempi di come andrebbe letto e cantato il nostro Inno nazionale, spiegato dal Prof. Michele D’Andrea:
https://www.youtube.com/watch?v=mbLcxcf1omY
Come consuetudine, le associazioni che si richiamano al Risorgimento, A.N.V.R.G. Sezione di Ravenna, Società Cons. Capanno Garibaldi ed Ass. Mazziniana Italiana, sabato 8 febbraio 2020, presso l’Aula Magna della Casa Matha, hanno organizzato una conferenza nel ricordo della Repubblica Romana del 1849.
“L’inno svelato” è stato il titolo della conferenza, quasi una lezione-spettacolo, supportata da immagini video e brani musicali, che il Prof. Michele D’Andrea, già Consigliere della Presidenza della Repubblica, esperto di storia, musica e nel settore della comunicazione istituzionale, ha tenuto nell’Aula Magna della Casa Matha di fronte ad un folto pubblico, oltre cento persone. E’ stata una passeggiata a ritroso nel tempo, tra le pieghe della storia ufficiale, con al centro della narrazione “Il canto degli italiani”, L’INNO DI MAMELI, attorno al quale ruotano curiosità ed aneddoti che ne hanno accompagnato la nascita, il successo, il significato e l’attuale percezione.
Con questa iniziativa nel ricordo della Repubblica Romana, abbiamo celebrato il “Canto degli Italiani”, l’appassionante storia dell’Inno Nazionale italiano, che fa parte della grande storia degli uomini che con coraggio ed eroismo fecero l’Italia. Un inno scritto di getto, spontaneo, composto da un giovanissimo combattente per la libertà, Goffredo Mameli, senz’altro adatto a simboleggiare la giovane Italia rivoluzionaria, il fervore patriottico di quel tempo. Gli stessi ideali che troviamo nella Costituzione repubblicana che l’Italia si è data dopo aver riconquistato la libertà con la Resistenza.
Non è mancato il confronto con gli inni di altri paesi, musiche in fotocopie e testi improbabili. Molti inni non hanno un autore ben preciso, ma sono frutto di diversi arrangiamenti e la trasformazione delle melodie vengono poi utilizzate da altre nazioni. D’Andrea si è soffermato sulla “Marsigliese”, forse l’inno più famoso e suonato, la cui musica pare copiata. Una disputa ancora in atto per la somiglianza con la melodia creata da un italiano, G.B.Viotti, musicista a Parigi, che aveva creato lo spartito della musica, inconsapevole che dopo qualche anno sarebbe stato trasformato in un inno rivoluzionario.
Il Prof. D’Andrea ha sottolineato “che gli italiano non conoscono il loro inno nazionale, considerata una marcetta, un brano leggero, musicalmente e poeticamente banale. In realtà il nostro è fra gli inni più interessanti, ma è suonato male, anzi malissimo. Le esecuzioni sono troppo militaresche e rigide, lontano dalla versione originale che Michele Novaro compose nel 1847 e che aveva un andamento possente e dinamico. Era l’affresco di un popolo sottomesso che prende finalmente coscienza di sé e si scopre pronto a combattere per la propria libertà”.
Tra le curiosità, ha ricordato che Giuseppe Mazzini commissionò a Giuseppe Verdi un inno. Verdi scrisse l’inno e inviandolo a Mazzini, gli scrisse che poteva farne ciò che voleva. Fu un “fiasco verdiano” e l’inno sparì dalla memoria collettiva in poco tempo perché c’era un testo possente, quello di Goffredo Mameli e Michele Novaro trovò l’alchimia giusta per la musica: la funzione dell’inno deve essere quella di aggregare una comunità attraverso un idea.
L’inno di Mameli e Novaro non è una marcetta, è un canto di Popolo e Novaro s’immagina una pianura con tutti di italiani, un invito a milioni di “straccioni” a prendere le armi e conquistare la libertà.
Alla fine tutti i presenti hanno intonato l’inno di Mameli, ma la prima esecuzione non è parsa troppo intonata al Prof. D’Andrea che ha interrotto il canto. Ma la seconda esecuzione, ben diretta dal Maestro Michele D’Andrea è stata perfetta, possente e dinamica, come avrebbero voluto Mameli e Novaro!
Un inno con un finale meraviglioso, lì c’è tutto il nostro Risorgimento. Insomma, il nostro, è l’inno più bello!
Maurizio Mari, Segretario Società Conservatrice Capanno Garibaldi Ravenna
di Leandro Mais
I miei amici lettori saranno particolarmente curiosi di sapere quale sia il nesso che collega tra di loro i tre soggetti del titolo di questo mio articolo. Eppure l’unione dei tre nomi dovrebbe essere abbastanza nota in quanto la Francia è stata per i due celebri personaggi italiani la Nazione che è entrata, seppure in maniera differente, nella loro vita. Tutti infatti sanno che il grande genio italiano ha voluto chiudere in terra francese la sua eccezionale esistenza: moriva infatti il 2 maggio 1519 nel castello di Cloux ad Amboise, fra le braccia del Re di Francia Francesco I. Il nostro più grande eroe del Risorgimento, Giuseppe Garibaldi, aveva invece avuto il destino di nascere il 4-7-1807 in terra francese, ovvero a Nizza Marittima e, seppur suddito del grande Napoleone I, è bene ricordare che la sua famiglia, come molte altre, volle rimanere di nazionalità italiana.
Premessi pertanto questi importanti dati sulle due grandi figure storiche italiane, mi sembra giusto fare un po’ di luce chiarificatrice sul collegamento che ha stimolato la mia curiosità intorno ai fatti che legano i due personaggi alla terra di Francia. Il filo conduttore di questa ricerca e delle descrizioni che seguono hanno come base di partenza il francobollo. L’indiscusso valore documentale di questo antico e ormai scomparso adesivo di tassa postale mi ha permesso di costruire la “cronaca” delle due diverse commemorazioni in terra francese, celebrate in onore dei suddetti personaggi italiani.
15 aprile 1452/1952, 500 anni dalla nascita di Leonardo da Vinci. In questa occasione la Repubblica francese emette un francobollo da F. 30 (foto 1) dedicato al grande genio italiano; non solo, ma questo francobollo commemorativo reca il seguente annullo (foto 2): “Amboise 9 juil 1952″. Da notare che Amboise era la cittadina ove il grande genio morì, e non dove nacque. Ciò premesso, andiamo a vedere cosa viene invece commemorato, sempre in terra francese, ai 500 anni dalla morte, ovvero il 2 maggio 2019: solamente l’incontro nel castello di Cloux ad Amboise tra il Presidente della Repubblica francese Macron e il Presidente della Repubblica Italiana Mattarella, senza che l’evento sia stato valorizzato almeno da un ricordo filatelico del luogo ove morì il grande Leonardo.
Per quanto riguarda invece Giuseppe Garibaldi, il grande condottiero italiano del Risorgimento, la “sorella” Francia non ha mai emesso su di lui alcun ricordo di natura filatelica, anche se credo sia giusto rilevare un interessante riferimento di natura postale. Già dal 1941 l’ufficio postale di Nizza, sito in Piazza Garibaldi, recava la dicitura “Nice-Garibaldi” – Vedi annullo meccanico (foto 3) – e anche una raccomandata del 6-8-42 (foto 4) con bollo tondo “Nice Garibaldi”, nonché la stessa dicitura nel talloncino di raccomandata. Il fatto veramente particolare, poi, è quello che riguarda la commemorazione dei 200 anni dalla nascita dell’eroe. Notiamo infatti nel dispaccio navale speciale per Nizza (foto 5) che l’annullo ha la data del 4.7.2007/La Maddalena e bollo di arrivo “06 Nice Garibaldi/4.7.2007/Alpes Maritimes”. La novità importante è data dall’annullo figurato che la Francia ha apportato non come bollo di arrivo ma come annullo speciale figurato sul francobollo francese (foto 6). Queste cartoline recano a destra in alto il francobollo commemorativo italiano da 0,65 € per i 200 anni della nascita dell’eroe, e annullo speciale che riproduce la vignetta del francobollo; in basso, su francobollo francese da 0,60 €, il bollo speciale figurato (busto di fronte di Garibaldi). Ho voluto brevemente accennare a come siano stati ricordati, in terra francese, questi due grandi italiani attraverso la documentazione ufficiale di quel piccolo e meraviglioso, purtroppo non più esistente, adesivo: il francobollo
Come ultima notizia (sul tema Francia – Garibaldi) è da ricordare che quest’anno ricorre il 150° anniversario del generoso intervento di Garibaldi e delle sue più valorose camice rosse in difesa della nuova Repubblica contro l’invasione prussiana. I francesi, stretti in un durissimo assedio dai tedeschi in Parigi, risposero organizzando un ponte di comunicazione col territorio libero mediante la costruzione di palloni aerostatici (Ballon-Montè) la cui partenza veniva effettuata settimanalmente nella Piazza Tuilleries. Da notare che ogni pallone era intitolato ad illustri personaggi della storia passata e recente; ad uno di questi venne dato il nome di “Garibaldi”. Questi aerostati servivano per trasportare, oltre l’accerchiamento tedesco, la corrispondenza, carte topografiche, ordinanze varie, ecc.. La corrispondenza non recava, per motivi di tempo, il nome del “Ballon”, ma per identificarne il nome bastava controllare la data di partenza. La corrispondenza riguardante il “Ballon Garibaldi” è datata dal 19 al 22 ottobre 1870, come risulta da un documento dell’epoca con le varie date. L’esemplare che qui allego (foto 7) è un piccolo cartoncino che reca il bollo “Paris/20 ott 70″. Per completezza d’informazione ricordo che questo “Ballon”, nonostante fosse stato colpito dalle fucilate dei prussiani, riuscì ad oltrepassare l’accerchiamento e a consegnare quasi tutto il materiale trasportato. Un altro ricordo del “Ballon Montè Le Garibaldi” è una rarissima medaglia ricordo in piombo (O mm 28) nella quale sono riportati i vari materiali trasportati (foto 8 e 9).
Nel salutare caramente tutti gli amici di questa Associazione garibaldina, colgo l’occasione per ricordare che il 20 settembre prossimo si celebrerà il 150° anniversario dell’entrata dei bersaglieri a Roma, che da quel giorno divenne la capitale d’Italia finalmente tutta unita.
Una mente razionale, abituata a considerare reale solo ciò che viene percepito dai cinque sensi, avrebbe classificato la storia che ha portato al ritrovamento dello Scudo di Garibaldi come “un raro colpo di fortuna”. Ma la successione degli avvenimenti e la dinamica temporale degli stessi, quasi fossero propedeutici alla costruzione del risultato finale, distraggono la mente dal razionale per portarla inevitabilmente verso il mondo ancora misterioso delle coincidenze.
Qualche anno fa, durante uno dei frequenti incontri avuti con Leandro Mais, membro Onorario della nostra associazione e appassionato collezionista di una importante raccolta su Garibaldi e sui garibaldini, venivo a conoscenza di un fatto singolare accaduto nel 2002, in occasione della pubblicazione, in una rivista di Palermo specializzata in fotografia, di un articolo firmato da uno specialista, amico dello stesso Mais, sul fotografo palermitano dell’800 Giuseppe Incorpora. Poiché l’Incorpora era stato il primo, nel 1878, a fotografare lo Scudo di Garibaldi (All. 1), lo specialista aveva deciso di recarsi al Museo del Risorgimento di Roma, ove era conservata l’opera, per scattare una foto direttamente all’originale, e poi pubblicarla. Al suo ritorno dal Museo, l’amico aveva riferito al Mais che lo Scudo non era più in mostra in quanto alcuni ignoti ne avevano asportato l’altorilievo centrale raffigurante la testa di Garibaldi! Pertanto, nell’articolo, era stata riprodotta la vecchia foto eseguita dall’Incorpora, proveniente comunque dalla collezione Mais. Questa era la sola versione esistente del fatto, visto che la stampa non aveva riportato alcuna notizia dell’eventuale denuncia di furto presentata dal Museo del Risorgimento alle forze dell’ordine.
L’opera d’arte era stata donata dal Popolo Siciliano a Garibaldi l’11 maggio 1878 e, da quest’ultimo, ceduto al Comune di Roma nel 1879. L’11 giugno 1882, in occasione delle onoranze che il Comune aveva reso all’Eroe, lo Scudo era stato posto su di un carro celebrativo, accanto a varie corone di fiori (All. 2). In seguito, se ne era potuta ammirare la bellezza all’ Esposizione Italiana di Torino del 1884, sezione industriale e artistica (All. 3) e, sempre a Roma, in quella Garibaldina del 1932, nel cinquantenario della morte del grande condottiero (All. 4).
Il prezioso oggetto si ripresenta sulla scena, in una forma del tutto inconsueta, sul finire del mese di ottobre del 2019, quando decido di attraversare la città per andare a tagliarmi i capelli a casa di un barbiere ultraottantenne, del quale sono stato cliente fedele per decine di anni, e dal quale continuo a recarmi saltuariamente, per amicizia, anche dopo il suo abbandono della professione. Dopo le rituali operazioni di taglio, l’amico, conoscendo la mia appartenenza a una Associazione Garibaldina, mi segnala che un negoziante di antiquariato da cui si reca ogni tanto per l’acquisto di piccoli oggetti d’epoca, ha sottoposto alla sua attenzione un pezzo di rara bellezza, propostogli, a sua volta, da un privato che ne è in possesso e che vuole vendere: uno scudo metallico, variamente decorato, con al suo centro una piccola scultura raffigurante la testa di Garibaldi. E aggiunge, inoltre, di non essere interessato all’eventuale acquisto, sia per l’alto costo (ottomila euro), sia perché il tema dell’opera potrebbe essere apprezzato solo da un estimatore del periodo risorgimentale. Mentre ringrazio per il pensiero, immagino come possa essere questo oggetto, senza preoccuparmi di collegarlo alla storia descritta precedentemente. Il primo dubbio, però, mi assale quando il barbiere, approfondendo la descrizione trasmessagli dall’antiquario, ne mette in evidenza il diametro, mimandolo con l’apertura delle braccia e asserendo che l’oggetto può essere spostato solo con la forza di due persone. Quest’ultimo particolare suscita in me la curiosità di vederlo, almeno in foto. Fingendomi interessato all’acquisto, chiedo all’amico di farmi inviare dall’antiquario, sul mio telefono cellulare, l’immagine dello Scudo.
Dopo qualche giorno senza comunicazioni né immagini, ripongo nel cassetto della dimenticanza oggetto, offerta e curiosità, fino al momento in cui, invitato a casa dei coniugi Mais, colgo l’opportunità per raccontar loro brevemente il fatto. Questi ultimi, certi che non si tratti del famoso Scudo, di cui conoscono la storia, compresa quella della “decapitazione”, condividono la mia curiosità, momentaneamente accantonata. Passano pochi minuti. Mentre siamo intenti a parlare d’altro, arriva inaspettata sul mio cellulare l’immagine che avevo precedente richiesto, inviatami, anche se con ritardo, dall’antiquario. A questo punto è facile immaginare sorpresa, stupore e incredulità nel riconoscere in quell’oggetto proprio lo Scudo di Garibaldi: integro, bellissimo e soprattutto identificabile in base all’immagine d’epoca del famoso fotografo siciliano Incorpora, posseduta dal Mais, e attraverso la descrizione tratta dall’articolo di un giornale d’epoca. Scudo integro, dunque, e non “decapitato”! Il fatto meritava un serio approfondimento (All. 5).
Decido dunque di contattare nei giorni seguenti l’antiquario per prendere un appuntamento e recarmi con lui a casa del privato, e vedere finalmente l’oggetto. Deciso il tutto, ci rechiamo nel giorno e nell’ora prefissata da un anziano ingegnere (poi risultato architetto) il quale, senza indugio, ci porta nella sua cantina e da qui estrae, aiutato dall’antiquario medesimo, uno scudo metallico circolare, policromo, molto pesante. A questo punto ogni dubbio svanisce: mi avvicino all’oggetto con trepidazione, e accarezzo la testa dorata dell’Eroe pensando che sicuramente anche Lui lo avesse fatto, in segno di ammirazione per la perfezione e bellezza dell’opera scultorea. Avevo portato con me la descrizione minuziosa dei simboli e delle incisioni praticate sullo Scudo e la loro collocazione nella ripartizione dei vari settori (All. 6); le ritrovo tutte, quelle incisioni, dai nomi dei Mille a quello di Anita, da Rosolino Pilo a Vittorio Emanuele II, emozionandomi insieme all’antiquario che inizia per la prima volta a comprendere l’unicità e l’importanza dell’oggetto che gli era stato proposto per una mediazione di vendita.
Chiedo all’ingegnere delucidazioni circa la provenienza dell’opera d’arte; lui mi risponde di aver lavorato per molti anni al Museo del Risorgimento di Roma come responsabile degli allestimenti delle mostre, e di aver ricevuto lo Scudo dall’allora Presidente dell’Istituto del Risorgimento, nel frattempo deceduto, in cambio di lavori eseguiti e mai liquidati! Chiedo allora, anche se non dovrei farlo, vista l’assurdità della sua risposta, se ci sia un documento che possa in qualche modo attestare questa dichiarazione. Naturalmente no! A questo punto chiedo all’ingegnere se il Direttore del Museo (lo stesso dirigente che aveva raccontato all’amico di Mais la storia del furto), sia a conoscenza di quanto asserito, ma ho da lui ancora una risposta negativa. Vedo se si riesce a uscire da questa situazione imbarazzante: propongo allora all’ingegnere, che accetta, di telefonare il giorno successivo al Direttore del Museo per informarlo della sua volontà di far rientrare lo scudo al Museo. Da parte mia avrei verificato, tramite l’antiquario, se l’operazione fosse stata puntualmente eseguita. Dopo una settimana, non ricevendo notizie, chiamo l’antiquario che mi informa dell’avvenuta telefonata tra l’ingegnere e il Direttore del Museo: costui gli avrebbe intimato di riportare subito lo Scudo nella sua antica sede storica. Trascorsa ancora una settimana senza notizie, temendo a questo punto che alle parole non fossero seguiti i fatti, e che lo Scudo potesse volar via, persino all’estero, decido di confidare il tutto al Comandante della Stazione dei Carabinieri di Roma – Gianicolense, che conosco da una ventina d’anni. Il Comandante comprende subito l’importanza del caso e nel giro di 48 ore, prima convoca me alla Stazione dei CC per ascoltare, alla presenza di alcuni funzionari del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri, da lui stesso convocati, la storia dello Scudo di Garibaldi e del suo “miracoloso” ritrovamento; successivamente si reca con gli stessi funzionari a casa di Leandro Mais che confermerà, non solo l’importanza documentata dello scudo, ma anche la storia dell’ormai famosa “decapitazione”.
Il resto è cronaca che si può ritrovare nel Comunicato Stampa dei Carabinieri apparso sulle principali testate giornalistiche italiane. Attualmente lo Scudo è in custodia del sopracitato Nucleo T.P.C. dei Carabinieri.
Con rispetto assoluto delle indagini in corso, che si spera possano far luce completa sulle responsabilità degli attori di questa storia e di quelli ancora sconosciuti, deputati al controllo del materiale custodito nei depositi dei Musei e non esposti, mi auguro che lo Scudo di Garibaldi, che l’Eroe aveva donato generosamente alla città di Roma, possa essere collocato nella sala più visitata dal pubblico del complesso dei Musei Capitolini, con una targa che ne illustri la vicenda storica, artistica e umana, e una riga finale dedicata alla sua scomparsa dal Museo Nazionale del Risorgimento di Roma e del suo funambolico ritrovamento avvenuto nel 2019.
Paolo Macoratti (Presidente Ass. Garibaldini per l’Italia)
Carissimi amici, mi permetto di far seguire a quanto illustrato dall’amico Presidente qualche notizia su questo “ritrovamento”, per la parte relativa alla mia collaborazione. Il sottoscritto ha semplicemente resi noti tutti i dati riguardanti la documentazione storica della preziosa opera di Antonio Ximenes. La medesima è stata consegnata ai Carabinieri del Reparto Tutela Patrimonio Culturale durante la visita al mio domicilio. Ciò premesso, mi resta solo da sottolineare negativamente quanto segue: Il comunicato stampa cui ha fatto seguito la pubblicazione in varie testate di giornali (con molti errori) del ritrovamento dello Scudo da parte del suddetto Reparto T.P.C. non ha fatto alcun cenno alla fattiva collaborazione dei due cittadini. Questa precisazione valga solamente, da parte mia, come realtà dei fatti; per il resto sono contento di aver operato negli interessi della collettività.
Leandro Mais
(le immagini 1-3-4-6 provengono dalla Collezione Mais)