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Visitare almeno una volta il luogo ove visse e morì l’”Eroe dei due mondi” non dovrebbe rappresentare soltanto il soddisfacimento di una curiosità: quella di vedere le bellezze dell’isola di Caprera, così spesso citata nei libri di storia, e la tomba di Garibaldi e dei suoi famigliari. Un tale proponimento sarebbe di certo utile per soddisfare i sensi ma resterebbe nella logica della superficialità. In realtà, per ogni cittadino italiano e del mondo, tale visita dovrebbe suscitare un sentimento di devozione e ammirazione verso “il liberatore”; verso colui che incarnando il concetto di libertà dell’essere umano, ha donato agli uomini e alle donne di allora, di oggi e di domani l’esempio più fulgido e onesto di come ci si possa affrancare dal potere dell’uomo sull’uomo, dedicando un’intera vita al raggiungimento di questo scopo.

In questa ottica, una delegazione dell’Associazione Garibaldini per l’Italia, formata dal Presidente Paolo Macoratti, dalla Segretaria Monica Simmons, dai soci Stefano Dini, Patrizia Musacchio e Patricia Tendi, ha organizzato nei giorni 11,12,13 settembre 2024 un “Pellegrinaggio” a Caprera. Durante la visita alla “Casa Bianca” e al Compendio garibaldino” sono stati letti alcuni brani tratti dal libro Giuseppe Garibaldi – Il predestinato edito dalla “Garibaldini per l’Italia Edizioni”.

     

     

Questa pubblicazione a firma di Leandro Mais (apparsa su “Almanacco Maddalenino-Ed. Paolo Sorba-Numero unico-Bicentenario garibaldino 1807-2007″), in cui è riportata una lettera scritta dal Medico e Garibaldino Enrico Albanese e facente parte della collezione dello stesso Mais, costituisce per tutti gli estimatori del Risorgimento e dell’epopea garibaldina una preziosa, duplice testimonianza: da un lato il forte legame che univa Garibaldi ai Garibaldini, come appartenenti a  un’unica, grande famiglia; dall’altro, la grandezza dell’uomo che seppe rifiutare onori e ricchezze dopo aver compiuto imprese straordinarie e che, depredato dei suoi beni materiali, seppe vivere comunque con umiltà e dignità nella sua Caprera. Ringraziamo Leandro Mais per averci dato la possibilità di conoscere questa bella pagina di storia e di umanità.

p.m.

 

Gli storici dell’epopea garibaldina e risorgimentale non hanno dato risalto dovuto alla figura di Enrico Albanese che viene ricordato, in particolare, per essere stato uno dei medici di Garibaldi. E’ opportuno dare  un breve cenno  dei più salienti episodi della vita di questa bella figura di patriota e del come e del perché si legò per la vita all’eroe, con un sentimento di ammirazione infinita che il duce dei Mille ricambiò fino alla morte.

Enrico Albanese nacque a Palermo il 12 marzo 1834 e da giovane medico partecipò, salvandosi fortunosamente, agli sfortunati moti  della Gancia (aprile 1860). Purtroppo non riuscì a partire con i Mille da Quarto ma li raggiunse nella sua Palermo, ormai libera. Come medico e come soldato fu lodato dallo stesso Garibaldi per il suo eroico comportamento a Milazzo, per cui ottenne una medaglia d’argento. Ma l’episodio che legherà il Generale al medico-soldato fu quello infausto e sfortunato, ma glorioso, di Aspromonte. Quando il 29 agosto Garibaldi cadde ferito, tra i primi a soccorrerlo  furono Enrico Cairoli, Francesco Nullo e proprio Enrico Albanese. Quest’ultimo, su  ordine dello stesso Garibaldi, iniziò l’operazione per estrarre il proiettile. Purtroppo l’intervento del vecchio dottore Ripari (Capo dell’ambulanza garibaldina) bloccò il giusto e tempestivo intervento  del giovane chirurgo, condannando l’Eroe a quasi tre mesi di dolori col rischio dell’amputazione del piede destro.

Durante la prigionia di Garibaldi al Varignano (La Spezia), l’Albanese fu scelto, oltre che come medico curante dell’eroe (insieme al Ripari e al Basile), anche come segretario. Dal Varignano, interessantissime  sono  le lettere scritte alla futura moglie Emilia Ginami e quella alle figlie del Duca Della Verdura (sindaco di Palermo), con la minuziosa  descrizione della stanza e degli arredi dove giaceva Garibaldi ferito. Dopo l’estrazione della “regia palla” eseguita a Pisa dal professor  Zannetti, Garibaldi tornò a Caprera accompagnato dall’Albanese e dal Basile. 

Enrico Albanese non lascerà Caprera – nonostante i suoi impegni professionali in Palermo – se non quando il “suo Generale” tornerà a reggersi  in piedi, seppure sulle stampelle  (agosto 1863). L’Eroe, commosso dalle amorevoli cure dell’amico medico gli donò, al momento del saluto, la Camicia Rossa1 che egli indossava quel tragico 29 agosto. Solo allora l’Albanese poté chiudere il Diario della ferita di Garibaldi ad Aspromonte, che aveva tenuto giornalmente dalla data del ferimento2. Seguirono le altre Campagne garibaldine:Tirolo (1866) Mentana (1867) che videro sempre la presenza dell’ottimo volontario e dell’infaticabile medico. Ormai il rapporto di amicizia con Garibaldi era divenuto talmente forte che si poteva paragonare all’affetto di un  figlio verso il padre. Naturalmente, quando gli impegni della professione glielo consentivano, l’Albanese si presentava a Caprera dal “suo Generale” e trascorreva bellissimi periodi insieme ai fidi compagni d’armi che costituivano la gioiosa compagnia del “Solitario di Caprera”. Un fatto, poco noto, è l’amore per la natura che l’Albanese condivideva con Garibaldi. Fra le tante testimonianze bellissime dell’archivio Albanese (lettere, foto, manifesti, documenti ecc.) vi è, infatti, un quaderno rilegato con la scritta in oro sulla copertina: CAPRERA3. In ogni  pagina, l’Albanese ha posto una varietà di fiori e di piante, segnandovi  il relativo nome. Cosa commovente, se si pensa che egli non era botanico, ma medico chirurgo! Quel quaderno costituiva per lui un tenero ricordo della bellezza di quest’isola ormai divenuta famosa.

La serena e idilliaca visione di Caprera sfumò il 27 luglio 1874 quando Albanese, chiamato urgentemente dal Generale, ritornò nell’isola dalla quale mancava da sette anni. Lo spettacolo che gli si presentò era talmente tragico da lasciarlo fortemente colpito. Egli trasmise  questo turbamento, con parole emozionate fino al pianto, in una lettera inviata all’amata moglie Emilia (in essa, tra l’altro mise, in piego di carta velina, una ciocca di capelli con la scritta “capelli e barba del Generale, tagliati il 27 luglio 1874”. Anche questo cimelio è giunto intatto insieme alla lettera).

  Caprera, 27 luglio ’74 – sera

   Mia cara Milia,

  L’uomo propone e Dio dispone : ecco l’adagio che mi viene sulle labbra guardando la luna e il mare quieto e tranquillo. Ti avea promesso di accompagnarti  ai bagni la prima sera di luna piena ed invece sono qui in Caprera, chi di noi due poteva pensarlo allora? Sono le 8 ½  – ognuno si è ritirato nella propria stanza, ed io qui solo pria di cercare riposo sento il bisogno di restare con te un poco: è quattro giorni che sono via di Palermo e nella corsa diabolica  accompagnata dalla bufera non ebbi un momento di tempo  per restare con te a far quattro chiacchiere. Il giorno  di venerdì fino a sera il tempo fu buono, la notte si fece cattivo e ci accompagnò così fino a Civitavecchia dove arrivammo  alle ore 2 p. m. del sabato per ripartire subito alle 4. – All’uscire di Civitavecchia i cavalloni venivano su orribilissimi, ed in breve fummo presi da una vera bufera, grandine, lampi, pioggia, vento che parea il finimondo. E questo tempo durò fino a Livorno dove arrivammo con gran ritardo, sicchè ebbi appena il tempo di trasbordare a bordo la “Lombardia” che era pronto a partire per Maddalena. Anche il viaggio per la Maddalena fu infelice, ma sotto la Corsica al riparo dai venti, il mare era più calmo e potei restare per qualche ora sulla coperta. Al mal di mare questa volta si unì pure un fiero ed ostinato dolore di ventre che mi fece scalare la pancia di 4 dita. Alle ore 5 a. m. del 27 siamo alla Maddalena. Un barcaiolo ignoto dalla barba nera si presenta a me, e si mette ai miei ordini, comandato come era dal Generale. Scendo nella sua piccola barchetta e gli chiedo ancora del Generale. Mi risponde secco – Ha la moglie ammalata. Il vento non era finito si fece vela – ed in meno di mezz’ora siamo alla puntarella dove discendo. Sono in Caprera dopo 7 anni di assenza – Tutto è silenzio. Il sole mette fuori il naso dal Teggiolone, mentre io metto il piede nell’isola abbandonata e deserta. Oh! Come tutto è mutato; quei piccoli campi preparati con tanti stenti e con tanto amore dieci anni addietro, ora sono nuovamente pieni di erbe selvatiche, più si va avanti  e più la campagna è deserta. Incontro una vecchia cavalla magra – è la Marsala poi due, tre, quattro, otto vacche magrissime – finalmente son presso alla casa le finestre  son tutte chiuse a vederla sembra un a tomba, faccio ancora pochi passi ed un uomo della mia statura con un bizzarro cappello in testa, con certi baffetti neri mezzi unti, con lo sguardo incerto come quello di un ebreo mi viene incontro e mi da il ben arrivato. Chi è quest’uomo – sembra un contadino  ma si dà l’aria del Maitre d’Hotel , gli rispondo con un buon giorno, e mi conduce in fino nella stanza del Generale che è ancora in letto. Il Generale ha bella  cera, esso non è più invecchiato, la barba è ancora mezzo rossiccia e i capelli sono bigi come al ’66. La fisionomia  vispa, nutrita è ancora bella, sembra quasi più giovane; mi abbraccia e mi bacia con effusione dicendomi:: “avete fatto da vero amico e non potea dubitare di voi. Vi ho fatto chiamare per la Signora”. La Signora? La Signora è Francesca la balia di Canzio. Essa è li coricata – a lato del Generale, e con essa nel letto vi è un altro bambino a 2 anni circa certo Manlio – è febbricitante da 5 giorni con sintomi un po’ gravi di bronchite – è molto magrito ma ha l’aria tanto buona, e tanto dolce che mi ispira della simpatia. Dopo un  momento entra nella stanza un’altra bambina di 7 anni, forte, robusta, con occhi castani vivacissimi mezzo nuda; è la più grande e la chiamano Clelia.

Sto un momento in stanza un po’ confuso della confusione di tutti, faccio le mie prescrizioni e vengo fuori sul piazzale; vedo Basso – Basso è diventato vecchio, ha tutta la barba bianca, mi viene incontro e ci scambiamo un forte abbraccio, come da vecchi amici. “Ebbene”, mi dice, sei qui. Hai veduto? Era per lei! Il dispaccio l’ho fatto io, ma è stato il Generale che vi ha aggiunto  la parola subito. Ora sei qui, hai veduto l’isola. Tutto abbandonato, è una fortuna se ci trovi vivi. Siamo tornati agli antichi tempi. Si vive di caccia – io ammazzo una capra selvatica per settimana e questo è il nostro pasto. Non ci sono più soldi, siamo senza provviste, nessuno ci manda più nulla – Menotti, Ricciotti e Canzio hanno tutto consumato, anco l’onore di questo povero vecchio. Ricciotti ha debiti per un milione, Menotti ha cambiali per 400 mila franchi e Canzio che aveva in deposito 160 mila lire che erano la sola ricchezza  del Generale, ce le ha mangiate. Ora il Generale scrive, riscrive e guadagna qualche cosa tanto da comprare il pane. Siamo qui, l’isola non si coltiva più – e Fontanaccia stessa è abbandonata, giacchè Lui ha le mani storte e veramente il Generale ha le mani storte dai dolori artritici , e non può lavorarvi, e perché non abbiamo come pagare un uomo per la coltura. Siamo qui soli. Caprera è ipotecata ad un inglese per 300 mila lire per coprire certi debiti di Menotti; domani possono venire a cacciarci via! Questo discorso di Basso mi agghiaccia l’animo. Povero Generale ora sì che sei veramente povero. C’erano i tuoi figli che ti hanno immiserito! Più tardi il Generale mi invita a bere il caffè con lui, e passiamo tutti nella saletta da pranzo. “Si beve il caffè d’orzo, caro Albanese, non so se vi piacerà, ma non abbiamo più caffè  neri qui a Caprera. Siamo poveri e vi adatterete a noi, non è vero?” mi dice il Generale, io ho bevuto una tazza enorme di caffè d’orzo, che mi pareva una porcheria, e che pure dissi che era buona eccellente! Finiamo di prendere questo caffè, ed andiamo in Fontanaccia. Il Generale cammina colle stampelle e l’accompagnano i due bambini, quell’uomo che venne ad incontrarmi, che seppi poi essere un vero cognato chiamarsi Antonio, ed un’altra ragazza bellina, che bada ai bambini e che è sorella della Signora. Per la strada nella discesa dell’uliveto, a sinistra, vi è una tomba di marmo bianco, piena di fiori – sulla tomba  vi è scritto Rosa Garibaldi nata nel 1859 morta nel gennaio 1871. Fontanaccia è un deserto: le viti non sono zappate, gli alberi vi sono ben cresciuti. “Riposiamo qui  all’ombre” mi dice il Generale, “non andiamo più avanti, vi è l’aranceto, non ho core di andare più in là. L’aranceto se lo vedeste, è un cimitero! E veramente tutto fontanaccia sembra un cimitero Cespugli per tutto, alberi sfrondati, viti per terra  quasi perdute.” Più tardi si va a pranzo. E’ tutta la capra che fa la festa: capra in umido con cipolla, capra stufata, capra arrosto. Io mangio con fame tutto quanto mi danno, e mi par tutto squisito; vi bevo sopra per buona fortuna un bicchiere di marsala, di quella marsala che io avevo   portato con me, ciò che non toglie per altro una pura indigestione e i dolori che son tornati più gagliardi di prima. Dopo pranzo, vaccino il bambino; poi si fa la siesta quindi vado a prendere un bagno e ricomincio sulla spiaggia a cogliere conchiglie e coralli per Manfredo. 

La sera si cena: un grosso pollo fa gli onori di casa, mal cotto del quale io non vo mangiare. Di poi  nella saletta di pranzo è un gran baccano. La Clelia va a suonare uno stonatissimo organetto, il Generale contento ne scorge nello stonamento  che il pezzo è famoso. “Lo sentite?” mi dice, “E’ il barbiere di Siviglia!” A me parea  un charivari ma finisce il pezzo  rivedo la Signora che ha la febbre molto meno, e ritorno solo nella mia stanza. La mia stanza è a primo piano sulla terrazza, quella stessa che abitammo otto anni addietro – il letto è buono e la biancheria è pulita: Meno male. Solo qui ho pianto, non credeva a tanta miseria. E penso che Caprera ai nostri tempi era ricco terreno, e questo povero uomo era allora un Re! Cara addio. E’ tardi e sono stanco orribilmente. Domani all’alba riparte il corriere  e non ho tempo di vedere ciò che ho scritto  – addio. Salutami tutti. Le sig.E  Nunan di cui specialmente le ragazze, Giannesina, la mamma grande a te a Corrado a Manfredo tanti baci, a te una stretta di core dal tuo sempre

Enrico

Il Generale ti saluta caramente.

   Albanese morì improvvisamente mentre si trovava a Napoli per un congresso medico il 5 maggio 1889. Volle, come ultimo desiderio, essere sepolto entro un’urna di granito di Caprera, proprio  come il suo Generale. Questo fatto è emblematico della “comunione d’affetti” che legò in un unico sentimento d’amore altissimo il trinomio Caprera, Garibaldi ed Enrico Albanese.

Leandro Mais

1 Oggi questo importante cimelio è conservato, insieme al altri pezzi dell’archivio Albanese, nella collezione dello scrivente

2 Anche questo   autografo   è conservato nella collezione Mais

3 Quaderno che contiene i fiori recisi raccolti dal Dottor Albanese, nel 1863, prima di lasciare Caprera

Giuseppe Garibaldi in 152 lettere e documenti autografi

a cura di Paolo Macoratti e Leandro Mais, prefazione di Mara Minasi; Roma, Garibaldini per l’Italia edizioni, 2016, pp. 312, in 8°, € 25,00.


Il volume, più che un semplice epistolario, è il frutto di una vita di studioso e collezionista di Leandro Mais, unito alla passione di Paolo Macoratti, architetto di professione, impegnato nella divulgazione del mito di Garibaldi come presidente dell’associazione “Garibaldini per l’Italia”.

La raccolta presentata proviene dai due fondi di proprietà di Mais: uno costituito dai pezzi entrati in possesso dello studioso in decenni di ricerca, ed indicato nel testo con la lettera “M”, l’altro è rappresentato dall’archivio Albanese, segnalato con la lettera “A”, recentemente acquistato dallo stesso Mais.

Il volume si apre con due brevi presentazioni dei curatori e una prefazione di Mara Minasi, funzionario direttivo della Soprintendenza Capitolina ai Beni Culturali, seguiti da una breve biografia del medico amico di Garibaldi, Enrico Albanese, e da una sintetica cronologia della vita dell’eroe.

Di particolare interesse è l’impianto dell’opera nel quale la documentazione, costituita fondamentalmente da lettere di Garibaldi ad Albanese e ad altri corrispondenti, è presentata in trascrizione ma affiancata dalle immagini degli originali, permettendo così un contatto diretto con i documenti. I curatori hanno anche precisato quando si trattava di autografi, di singola firma autografa, ed anche della mano di Giovanni Battista Basso, compagno d’armi, amico e segretario del generale.

Il lavoro è presentato in ordine cronologico: la prima lettera è dell’11 novembre 1846, da Montevideo, l’ultima del 20 maggio 1882, a pochi giorni dalla morte. Va detto che la seconda missiva è già del 2 luglio 1855 (da Nizza ad Antonio Origoni) e la terza, da Bologna, è del 29 settembre 1859, alla quale segue un proclama del 22 ottobre; la documentazione prosegue con 5 pezzi del 1860, uno del 1861, 7 del 1862, 15 del 1863, 13 del 1864, 12 del 1865 (di cui due lettere indicate con lo stesso numero “53 A” in quanto nella seconda Garibaldi chiede ad Albanese di bruciare la prima, indirizzata al Re), 13 del 1866, 13 del 1867, 6 del 1868, 8 del 1869, 7 del 1870, 6 del 1871, 2 del 1872, 2 del 1873, 14 del 1874, 12 del 1875, 4 del 1876, 2 del 1877, 3 del 1878, uno del 1879 e uno del 1882, a cui si aggiungono due documenti senza data. Di questi 47 provengono dal fondo Mais e 106 dall’archivio Albanese, incluse le 2 lettere segnalate con un unico numero.

Il volume, oltre alla riproduzione fotografica di tutte le lettere pubblicate, contiene anche un interessante apparato di immagini che presenta personaggi e vicende dell’epopea garibaldina.

L’opera, nel suo insieme, rappresenta un importante contributo alla vita e all’epistolario di Giuseppe Garibaldi, anche per la presenza di molti inediti.

La parte più interessante è sicuramente quella riguardante la corrispondenza con Enrico Albanese, che Garibaldi considerava: “Amico mio di cuore ed intemerato compagno, nella buona e nella cattiva fortuna” (Caprera, 28 dicembre 1868, p. 204). Le lettere mettono bene in evidenza il rapporto affettivo e confidenziale tra i due. Albanese fu un punto di riferimento per i tanti problemi di salute del generale, ma anche l’amico fidato al quale confidare i propri turbamenti, anche politici, al quale rivolgersi per disbrigare diversi affari e per raccomandare reduci ed altri amici. Albanese si occupò anche di far giungere a Caprera, specie in momenti di ristrettezza della famiglia Garibaldi, rifornimenti alimentari, bestiame e oggetti vari; nel 1874 si occupò anche dell’edizione delle Memorie.

Non mancano poi spunti interessanti in molte altre lettere; lo stesso Mais sottolinea, insieme ad altre, quella inviata da Bologna ai siciliani, il 29 settembre 1859, autografa, nella quale già immagina quanto avverrà l’anno seguente: “Dunque la redenzione della Sicilia è la nostra, e noi pugneremo per essa, collo stesso ardore con cui pugnammo su’ campi Lombardi!” (p. 30). Possiamo citare anche quella del 16 febbraio 1863, da Caprera, a Hermann Joseph, presidente del collegio municipale di Lipsia, nella quale ringrazia “della simpatia de’ Germani per la causa dell’Italia e della libertà nell’Italia”. (p. 78), e sottolinea l’importanza della comunione tra i popoli. Per il loro contenuto possiamo anche segnalare, tra le altre, la lettera da Caprera, maggio 1863, alla democrazia spagnola, (p. 86); il proclama ai greci, da Caprera, del 28 ottobre 1866, autografo (p. 166); la nota al comandante Bourras, per l’attacco a Digione, da Barbirey, del 24 novembre 1870, autografa (p. 224). L’elenco potrebbe continuare ma, come scrive Mais a conclusione della sua presentazione: “Lascio al lettore il piacere di scoprire personalmente in tutte le altre lettere quanto di curioso, di particolare offra ognuna di esse” (p. 11).

Romano Ugolini

                                                                                                            

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                             RITORNA NELLA CASA DI CAPRERA UNA MEDAGLIA-PREMIO CONSEGNATA ALL’AGRICOLTORE GARIBALDI

   

     Il primo giugno 2016 è stata presentata, e il 2 giugno ufficialmente esposta nella casa di Caprera, una medaglia  donata a Giuseppe Garibaldi nell’ambito della Seconda Esposizione Sarda agraria industriale e artistica del 1873.

Dalla ricerca effettuata nell’archivio di Sassari, la Dott.ssa Laura Donati ha trovato un documento nel quale è specificata la motivazione del premio assegnato al grande italiano: al “Solitario di Caprera” fu donata una medaglia di bronzo come riconoscimento per aver portato nell’isola “les pommes de terre”, cioè le patate che lo stesso aveva coltivate in Caprera. Questo toccante ricordo ci riporta alla semplicità di vita e alla grandezza dell’uomo Garibaldi.

     La bella medaglia, che reca inciso nel retro il nome del premiato, é stata donata dal collezionista Leandro Mais di Roma al Museo di Caprera, pensando che fosse più idonea la presenza di questo originale cimelio nella modesta casa dell’Eroe, piuttosto che in quella della sua collezione.