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Il ricco calendario di eventi del 2019, nel 170° della Repubblica Romana, è solo un ricordo! Oggi siamo purtroppo costretti a celebrare l’anniversario della battaglia del 30 Aprile 1849 solo dalle pagine di questo sito. La pandemia da coronavirus non ci permette di incontrarci, abbracciarci e vivere la memoria di quei gloriosi giorni del nostro Risorgimento. Tutto ciò non ci impedisce, però, di dedicare il forzato arresto alla storia e alla cultura. Riproporremo, pertanto, alcuni brevi filmati della prima storica celebrazione del 30 Aprile a Porta Pertusa, del servizio di Rai3 sulla scomparsa del diario di Paolo Narducci, primo caduto della Repubblica Romana, e la premiazione al Sacrario dei caduti per Roma del concorso “Alberto Mori” 2019.
Inoltre, per approfondire più dettagliatamente i fatti accaduti in quel 30 Aprile 1849, riportiamo il brano dello storico Francesco Domenico Guerrazzi tratto dall’Assedio di Roma, scritto nel 1864, e il documento del Fatto d’armi del 30 Aprile, uscito in data 5 maggio 1849.
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https://www.garibaldini.org/2019/04/appuntamento-30-aprile-2019/
LO ASSEDIO DI ROMA Francesco Domenico GUERRAZZI LIVORNO – 1864
30 aprile 1849: la prima battaglia
I Francesi giunti al bivio della strada di Civitavecchia distante 1500 metri da Roma non si bipartirono, ma conforme loro persuade la consueta superbia tirano innanzi di conserva per la via che mena a porta Cavalleggieri. Di tratto in tratto incontravano scritto sui muri, ovvero sopra cartelli pendenti da pertiche l’articolo quinto della loro costituzione, e i Francesi leggevano e ridevano, usi a tenere le costituzioni in pregio di fazzoletti da naso, e peggio. Anco il giornale del Generale Vaillant ricorda queste iscrizioni; erano della libertà che trucidavano, ma il soldato non volle vederci altro, che sceda, e ne tolse argomento a inviperirsi, ché il disposto a male fa di ogni erba fascio per attutire il grido della coscienza. Il Masi pistoiese gentile intelletto, caro alle Muse, e sacro affatto agli studi letterari di subito diventa non pur soldato, ma capitano, intrepido quanto arguto; da ciò piglino esempio quei soldati a cui par bello ostentare barbarie quasi ornamento della milizia: il soldato italiano è bene che sappia come i supremi capitani antichi ponessero il brando a segno del volume, che leggevano meditando, anco in campo; Bruto vigilava la notte precedente alla battaglia di Filippi su i libri di Platone, e Cesare nel tumulto di Alessandria null’altro ebbe a cuore eccetto salvare i suoi commentari i quali tenne levati sopra l’acqua con la mano sinistra, mentre notava con la destra; e degli altri mi taccio. Dei moderni soldati italiani basti dirne questo, ch’essi (parlo di quelli che militarono per la repubblica e per lo impero) decorarono la Paria delle migliori versioni delle opere greche: negli zaini loro portavano pane, e libri, quello pel corpo, gli altra per l’anima.
Il Masi pertanto difendeva la porta dei Cavalleggeri, l’altra detta Angelica, e le mura del Vaticano con la seconda brigata di milizia cittadina, e col primo battaglione leggero di fanteria. Il colonnello Calandrelli mirabile a trattare artiglierie, dal fato avverso condotto a dare la opera, e la vita in lontane regioni per causa non nostra, e né manco della libertà sosteneva co’ suoi cannoni da Santa Marta il Masi. Appena l’uffiziale posto a vedetta in cima alla cupola di San Pietro accennò lo appressarsi dei Francesi i campanoni del Campidoglio e di Montecitorio chiamarono a raccolta; della qual cosa menavano i nemici inestimabile allegrezza, taluno reputando che sonassero l’Angelus, altri a gloria per riceverli in trionfo. Il Petrarca nostro lamenta che ai suoi dì con le campane si desse il segno di battaglia:
«Né senza squille si comincia assalto «Che per Dio ringraziar fur poste in alto.»
Il Petrarca se intendeva favellare di guerre fraterne, senza fallo aveva ragione, se poi di battaglie in difesa della Patria certo ebbe torto; però che la vita offerta in sacrificio della Patria minacciata dal furore straniero, sia la migliore preghiera, anco a giudicio dei sacerdoti di Cristo.
Ma il cannone del Calandrelli ecco, che arriva a levare via lo inganno delle campane; due palle una sopra l’altra aprono un pertugio sanguinoso nella colonna stipata che si avanza. Allora degli assalitori alcuni sbandaronsi pei vigneti, o ripararono dietro gli archi dell’acquedotto dell’acqua Paola, altri sparpagliaronsi su i clivi fiancheggianti la strada, affermano per comando del Generale, e sarà, ma lo sbandarsi l’ordinava il cannone del Calandrelli, non l’Oudinot. Però dietro ai muri gli assalitori presero a trarre colpi, pur troppo bene aggiustati, atteso la molta loro prestanza, e la bontà delle armi. Il sangue, che primo lavò le mura di Roma dalla secolare infamia fu versato da Paolo Narducci romano, anima grande, che memore delle glorie antiche non pianse, ma esultò vedendosi tronco il fiore della gioventù: misero chi vive troppo! Dopo lui cadde Enrico Pallini aiutante maggiore mentre confortava con le parole, più con lo esempio i soldati ad usare ferocemente le mani; altri pure, massime artiglieri, lamentammo noi morti o feriti, i nomi dei quali sommerse nelle sue acque buie l’oblio; di qui nasce, e non può fare a meno, scompiglio; il fuoco delle nostre batterie rallenta, di che approfittansi gli avversari, i quali, così ordinando il capo di squadrone di artiglieria Bourdeaux piantano su certa altura due cannoni; da questa però poco frutto cavavano, lontana dal bastione 900 e più metri; allora partonsi di galoppo con due altri pezzi di artiglieria, e non curando mitraglie, corrono gli artiglieri francesi a collocarne altri due in batteria dietro il riparo di un’arco degli acquedotti; i nostri consolata un po’ la tristezza, ripigliano il trarre; pietà ha luogo nei combattimenti più o meno secondo la indole benigna, ma in tutti prevale l’ira; tre quarti belva l’uomo fuori di battaglia, in mezzo della battaglia tutto.
I Francesi obbedendo ai comandi del Capitano senza stringere ciglio secondo ché vogliono la disciplina militare, e il proprio ardimento attraverso un turbine di ferro e di fuoco si avventano contro i bastioni: erano due reggimenti di linea, il 20, e il 33; li conduceva il generale Molliere cercando una via per penetrarci dentro; i bersaglieri francesi rincalzavano l’audace impresa con lo spesseggiare di mortalissimi tiri; per essi stramazzò spento il brigadiere Della Vedova soldato vecchio, e modesto quanto animoso; ne andarono malconci di ferite il capitano Pifferi, il tenente Belli, il cadetto Mencarino, e il maresciallo Ottaviano; insomma tanto per loro si operò, che uno dei nostri cannoni tacque per manco di artiglieri; tacque, ma per poco, chè sottentrano ai caduti il soldato De Stefanis, il caporale Ludovich, e il capitano Leduc con sorte punto migliore dei primi però che entrambi stramazzassero a piè del pezzo colpiti nel petto; Leduc nacque belga, ma dove si combatteva per la libertà quivi era la sua Patria: illustre per gesti operati contro gli Austriaci presso Este, dove li vinse prima, poi gli affamò con lo impedire che fino a loro arrivasse la vettovaglia. Riposa in pace nella terra dei nostri padri, o eroe, e come avesti per madre la Italia, ella ti onora per figlio raccomandando la tua memoria ai più tardi nepoti: altra mercede ella non può darti; nè altra ne vorresti tu generoso.
Nel cuore degl’Italiani accesi dallo amore di Patria la smania della vendetta fa come vento in fiamma; dalle mura di Roma grandina ferro, chè il celere trarre risponde al palpito concitato, nè ci resistono i Francesi i quali laceri, duramente respinti danno indietro addopandosi alle asperità del terreno, o cercando in luoghi meno esposti iparo. Ira fosse o virtù tornano ad arroventarsi i Francesi, che balzando fuori dai ripari con raddoppiato ardire piantano cannoni nel bel mezzo della strada; un’altra batteria assestano sopra la terrazza di una casa, e due volte irrompono contro le mura, e due infrangendocisi dentro si ripiegano addietro scemi di morti, e grondanti sangue. Se cerchi la causa della bestiale ostinazione la troverai agevolmente, ma agevolmente non la crederai: pure è vera, e la racconta lo stesso Giornale del Vaillant; il supremo capitano Oudinot teneva per fermo che nel luogo dove spingeva i suoi occorresse una porta, la quale immaginava potersi fracassare mercè alcuni sacchi di polvere a questo fine portati dagli assalitori: per voglia di credere quanto più giova rimase ingannato, però che mai in cotesto lato ebbero porta le mura di Roma, bensì una postierla detta Pertusa da tempi remotissimi murata, e rincalzata per di dentro di terra. Oh! se le male fatte loro i Francesi non rammendassero con la soverchianza delle armi come piangerebbero lutti patrii più lunghi e più miserabili dei nostri. Tuttavia questo errore scemerebbe la censura dell’altro errore commesso dall’Oudinot pel disegno di assalire ad un punto due luoghi tanto fra loro distanti, porta Cavalleggeri, e porta Angelica. Poichè a prova di sangue i Francesi rimasero chiariti come di là non si passava deposero il pensiero di fare cosa, che approdasse da cotesta parte.
Intanto il Garibaldi dall’alto del casino dei Quattro Venti notava l’assalto, e il respingimento dei Francesi, sicchè gli parve cotesto tempo da mostrarsi percotendo di fianco: però spinse fuori della porta San Pancrazio alcuni drappelletti alla spicciolata, affinchè cauti ed improvvisi cascassero addosso al nemico, il quale dal canto suo stando su l’avvisato accortosi della insidia spiccò senza indugio un rinforzo per sostenere i cacciatori di Vincennes commessi alla cura della difesa di quel lato, onde non venissero sopraffatti.—I nostri volevano spuntarla, i Francesi risoluti a vincere pur essi, o a morire; in loro prepotente lo studio di mantenere l’antica fama di prodi, nei nostri il furore di torsi via dalla faccia la turpe nota di codardi: si venne a battaglia manesca dove si adoperarono non pure le armi, ma i morsi; rotti gli ordini ne successe una baruffa promiscua donde uscivano aneliti, guaiti, e aria densa, e sangue. Qui tra i primi periva il capitano Montaldi.
Chi egli fosse gl’Italiani imparino dallo stesso Garibaldi, il quale favella di lui nelle sue memorie inedite in questa maniera: «chi conobbe Goffredo Mameli, e il capitano De Cristoforis avrà idea delle fattezze del Montaldi e della età sua; nella pugna feroce e pure pacato come se fra amici si trattenesse in geniali colloqui; di lettere sapeva meno dei due rammentati, ma pari a loro in costanza intrepida, ed in militare virtù. Fino dagl’inizi egli fu parte della legione italiana a Montevideo, giovanissimo si versò in innumerevoli combattimenti per terre straniere, ma quando la Patria ebbe bisogno dei suoi figli, tra i primi il Montaldi passava il mare per offrirle tutto il suo sangue. Genova può incidere con orgoglio il suo nome a canto a quello del suo poeta, e guerriero Mameli: egli esalò la sua grande anima per diciannove ferite!» Caddero pure per non rilevarsi più i tenenti Righi, e Zamboni; feriti rimasero il giovane Statella figliuolo del generale napolitano, il maggior Morrocchetti, e i tenenti Dall’oro, Tressoldi, e Rota. Di questi altro non seppi, che virtuosi furono e degni figli d’Italia; più lunga storia narrerò del Ghiglione genovese: ogni ricordo è sacro; balusante negli occhi, o come oggi si direbbe miope si cacciava imperturbato davanti a tutti, però che, egli diceva, avesse bisogno di vedere il nemico da vicino, ma ciò non gli bastava, onde sovente si recava la lente all’occhio per mirare dove avesse a trarre, poi quinci rimossala, sparava, e sparato a pena col suo occhialetto sul naso speculava se avesse imberciato giusto; mentre così si travaglia, stando con la gamba sinistra sporta innanzi, ecco una palla francese ferirlo nei glutei, e cadde; lo soccorse tosto Pietro Ripari chirurgo, uomo di cui la Italia avverebbe mestiero crescesse il seme mentre pur troppo a mano a mano se ne perde la razza. Ora egli possedeva un cavallo vecchio, e magro, tuttavia inglese schietto già appartenuto al Duca di Torlonia di cui la storia come stranissima merita essere raccontata. «Così concio il giovane Ghiglione diceva al Ripari, mi toccherà starmene a letto per mesi, però tu piglia il mio baiardo e servitene.» Con questo cavallo il Ripari andò a Palestrina, tornato a Roma lo lasciava infermo in mano al manescalco perchè lo guarisse, senonchè gitosene a Velletri una sera lo incontra alla fontana dove lo avevano condotto ad abbeverarlo; di che egli stizzito mentre cerca chi fosse colui il quale a quel modo alla spiccia tornava in uso la pristina comunione delle cose trova essere stato il Mameli; glielo lasciava il Ripari e fu sventura, perchè il Mameli incavallato sopra cotesto altissimo animale potè facilmente essere tolto di mira, e vi ebbe la ferita ond’ei miseramente perì.—
Scrivono taluni, che vi rimanesse ferito anco Ugo Bassi, ma non è vero; cadde prigione soltanto ed ecco come: di lui diremo sparsamente più volte, intanto si sappia com’ei preso da sacro furore in guerra sembrasse una spada brandita dall’angiolo della sterminazione: in pace tanto nel suo petto soprabbondava l’amore, che non pure amava i propri simili, ma di smisurato affetto proseguiva anco le bestie; pari in questo a San Francesco, che chiamava sue sorelle le rondini, e fratello il lupo; però non è da dirsi quanto egli fosse attaccato a certa sua cavalla storna compagna inseparabile dei suoi perigli e delle sue pellegrinazioni: ora mentre montato su questo animale egli scorre lungo la fronte del nemico, tutto fiamma nel volto con forti parole soffiando nella virtù dei nostri perchè divampasse più gloriosa, ecco otto colpi di moschetto mandano sottosopra cavalcatura, e cavaliere: per fortuna tutte le palle penetrarono nel corpo alla bestia, il Bassi andò incolume, che rilevatosi indi a poco e vista morta la compagna le s’inginocchiò a lato, con molto pianto abbracciandola e baciandola; le chiuse gli occhi, le recise parte dei crini e se li ripose in petto conforme costumano gl’innamorati con le chiome dell’amata donna: i Francesi lo colsero in cotesto atto, lo pigliano, lo spogliano, e se lo cacciano innanzi percotendolo con isconce battiture, in modo pari a quello che gli Spagnuoli praticarono con Ignazio da Loiola; se non che la leggenda narra, che Ignazio rapito in estasi o non sentiva i calci, o gli aveva per grazia, mentre il povero Ugo, io metto pegno, che non ne provasse piacere.
Le storie raccontano che il Generale Garibaldi in cotesta battaglia riportasse contusioni non ferite, e male si appongono. Verso sera del 30 egli salito su di un poggiolo di pietra porgeva lodi e grazie agli studenti che in cotesta giornata combatterono come persone cui paia ventura cambiare la vita con la fama di martire per la Patria, e gli animava a perdurare nell’alto proposito, gli avrebbe avuti desiderati compagni in altre prove; intanto abbassati gli occhi e visto il suo chirurgo Ripari piegandosi verso lui gli sussurrava nell’orecchio: «venite stanotte da me, perchè sono ferito, ma nessuno lo sappia.» Difatti egli aveva riportato una ferita di palla nel fianco destro, che senza penetrare dentro gli aveva lacerato i muscoli dell’addome; pericolosa non fu mai, molesta sempre, e di guarigione difficile, sicchè non ne uscì guarito, che pochi giorni prima della caduta di Roma;—egli ne tacque sempre, ora lo dice, ed il Ripari, che tutte le sere gliela medicò conferma.—Ma questo accadde sul declinare del giorno; adesso il Garibaldi non ha tempo per pensare alle sue ferite; chiamato rinforzo e venuto da Roma condotto dal colonnello Galletti si scaglia con nuova lena contro i Francesi, i quali sopraffatti si ritirano; scopo del Garibaldi era circuire il nemico, ed assaltatolo con tutte le forze alle spalle troncargli la ritirata su Civitavecchia, e costringerlo a deporre le armi; e certo gli riusciva, se in cotesto suo moto mettendosi diritto alle batterie romane non fosse stato lacero dai fuochi di quelle, le quali traevano senza posa su la massa non distinguendo amici da nemici, ed anco se i Triumviri gli mandavano oltre i primi nuovi rinforzi; nonostante ciò il Garibaldi prosegue il corso della prospera fortuna, si lascia addietro la villa Valentini occupata da un battaglione francese, e si spinge fino alla villa Panfili, che espugna a furia di baionetta.—I Francesi da per tutto in rotta: intanto quattro compagnie dei nostri si dispongono a conquidere il battaglione della villa Valentini tutta cinta di mura; il Bixio siccome lo porta l’ardore del sangue afferra il cancello, che chiude la cinta e squassando forte e urlando da spiritato tenta schiuderlo, mentre le palle strepitano schiacciandosi contro i ferri del cancello rasente alle dita dell’audace soldato; altri non meno animosi gli si uniscono, e con forze riunite lo schiudono; nè i Francesi aspettano gli assalitori, presi dallo spavento si danno alla fuga. Aperto appena il cancello una spaventosa apparizione agghiaccia i cuori dei più feroci: un cavallo e un cavaliere tornano dal campo verso Roma, quello muove i passi a stento, l’altro vacilla a destra e a manca ciondolando il capo; aveva abbandonate le redini, che strisciavano sul terreno: le mani teneva pendenti ai lati della sella; la criniera, il collo, il petto, le gambe davanti, lo bordature del cavallo grommose di sangue; di sangue del pari rappreso il ventre e le gambe del cavaliere sordidate: il volto di lui più che cera bianco, ed inclinato sul petto: qualche palla ferendolo nella grande aorta ventrale lo aveva di certo concio a quel modo. Veruno ebbe ardimento di fermare cotesto cavallo che se gli bastò la lena sarà entrato in Roma, e lento lento tornato alla stalla consueta per morirvi a canto al suo signore già morto. Cotesto cadavere pauroso era di giovine leggiadro, e ricco a Vicenza: apparteneva alla cavalleria di Masina dove pel suo valore ottenne sollecitamente grado di ufficiale. Il Masina, che venuto a Roma per ragguagli e per ordini tornava a sprone battuto al campo incontra il morto a cavallo, e ferma in quattro, poi si mette a guardarlo con occhi sbarrati; lo riconobbe, si diede di un pugno nella fronte prorompendo in fiero sacramento, poi si slanciava a briglia abbattuta, e scomparve.—La madre del giovane dimorava lontana, e quando le annunziarono la morte del figlio le tacquero certo i particolari del caso, se ella lo avesse veduto l’avrebbe fulminata il dolore.
I Francesi movono lamento di certo strattagemma adoperato dai nostri per fare di un tratto prigioni un due centosessanta Francesi: ecco come sta la faccenda. Il maggiore Picard con trecento allo incirca soldati del 20° di linea su le ore antimeridiane aveva preso certa posta in prossimità alla villa Valentini, e quivi stette fino al termine della giornata, il quale venuto, alcuni dei nostri furbescamente presero a sventolare fazzoletti bianchi mostrando volersi abboccare col Maggiore, cosa da questo più che volentieri accettata, allora gli dissero le milizie francesi entrate per accordo in Roma, andasse a vedere, lo condurrebbero eglino stessi; il Picard accettava, e raccomandato prima ai suoi che vigilassero su le armi, li seguiva. Vedovo il corpo del suo capo lo circondarono i Romani due o tre volte più numerosi, e sforzatolo a deporre le armi, lo menano prigioniero a Roma. Posto vero il fatto, paiono peggio che strani i lamenti; gli strattagemmi consueti in guerra; la morale condanna quelli, che arieggiano di tradimento, e di ferocia codarda, si accomoda agli arguti; la ragione di stato si approfitta di ambedue: i Francesi poi immaginosissimi a inventarne dei nuovi, ma della prima specie, in copia, scarsi i secondi: Affrica parli, e parlerà anco Roma. Il comandante, il quale lascia per lusinghe i suoi soldati peggio, che stolto; ed egli non unico a condurli; dopo lui rimanevano altri ufficiali quanto egli capaci, e forse più di lui; nè i nostri li colsero alla sprovvista, dacchè partendosi, egli ordinava loro stessero vigilanti: dunque non cessero per inganno bensì per forza di arme; tagliati fuori essi giudicarono ogni resistenza vana: per me credo che tale operasse il Picard per non trovarsi presente alla resa volendo piuttosto comparire gaglioffo, che poco animoso.—Però diverso raccontano taluni dei nostri l’avventura e affermano il Bixio avere messo le mani addosso al Picard tentennante ad arrendersi, il Franchi di Brescia avere fatto altrettanto col sottotenente Rennelet, ed ambedue disarmati, e bendati trassero al Generale Garibaldi il quale li mandò al Ministro Avezzana.
Poichè alla porta dei Cavalleggeri fu respinto lo assalto non potendo patire i Francesi di aversene a tornare indietro con l’onta di una sconfitta (molto più che a rimprovero o a scherno della pecoraggine loro i nostri allo strepito delle artiglierie, e delle moschetterie alternavano i suoni dell’inno nazionale di Francia, la marsigliese, capace un dì come vantava il suo autore a movere centomila uomini, ed oggi diventato tanto innocente presso cotesto popolo, che lo insegnano per sollazzo ai pappagalli.—A siffatte ruine può precipitare un popolo per manco di virtù sua, e per malignità altrui!) il capitano Fabar, quel desso, che venne già in Roma per abbindolare i Romani voltosi al Generale Oudinot così prese a favellargli: «Generale ho riconosciuto più innanzi certa stradella la quale senza pericolo di restare offesi dal fuoco dei bastioni conduce alla porta Angelica, dove accadrà il tumulto concertato per aprircela.» L’Oudinot ridotto ad appigliarsi ai rasoi, crede al parabolano, ed ordina al Generale Levaillant di mettersi dietro al capitano con la seconda brigata, e due cannoni. Questo sconsigliato caccia dentro le milizie nel sentiero che si aggira per le muraglia dei giardini del Vaticano, e di vero potè procedere nascosto fino a duegento braccia dalla porta Angelica, ma appena i nostri lo videro sboccare fuori della strada, presero a sfolgorare la testa della colonna con una grandine di palle. La brigata balenava alquanto, non retrocesse; all’opposto si attelò di faccia, e postò i due cannoni. Di qua e di là si rinfocola la battaglia, ma sopraggiungono di corsa i carabinieri romani, il Calandrelli parve in quel dì trasformarsi nel centimano Briareo con le sue artiglierie: la morte menava baldoria, che i Francesi cadevano giù come insetti strizzati dal primo freddo di novembre; i cavalli dell’artiglieria esanimi a terra, e a terra pure percosso per non rialzarsi il Fabar. Possano gli oltraggiatori della nostra Patria non provare destino migliore del suo! Anco qui laceri i Francesi ebbero a ripararsi a frotte scompaginate per gli avvallamenti del terreno, o dietro ai muri continuando il fuoco scarso e languido anco per parecchie ore; i cannoni rimasero derelitti; potevano i nostri andare a pigliarli, ma non essendo consentito l’uscire, alle due dopo la mezzanotte i Francesi vennero a tirarli di cheto a braccia; a braccia pure si portarono i feriti.—Mille e più dei nemici morti, o feriti, o prigioni resero funesto per la Francia quel giorno; noi avemmo a rimpiangere dei nostri meno di duegento fra morti e feriti; e ci contiamo anco due cittadini morti, e quattro feriti; chi fossero i morti non mi occorre scritto; i feriti due giovanotti uno di 14, e l’altro di 16 anni, Mondavi Michele Romano il primo, l’altro Paolo Stella della legione romana con tre ferite, Bernardino Proietti da Spoleto ebbe il corpo trapassato da un pezzo di mitraglia; Giuseppe Caterini da Foligno con gran voce esclamò: viva la repubblica mentre gli amputavano il braccio ferito. Se la storia registra di Giovanni delle Bande nere il quale resse la candela al chirurgo mentr’ei gli tagliava la gamba offesa ci è parso giustizia non tacere la virtuosa ferocia del cittadino romano. Respinti da per tutto, a ragione paurosi di essere circuiti ed oppressi, o fatti prigionieri i Francesi passarono la notte su le armi, e la mattina maravigliando che quanto temevano non accadeva si ritirarono a Castello di Guido. Il terrore dei Francesi non era indarno, imperciocchè i generali Garibaldi, e Galletti pestassero mani e piedi per ottenere rinforzi, e sterminare il nemico, agevole il moto dacchè dalla villa Panfili, e dagli Acquedotti dominando la via Aurelia antica con celeri passi si poteva precorrere l’Oudinot a Castel di Guido, e chiudergli la strada; i Francesi poi rifiniti da dieci ore di combattimento, senza cavalleria, che nella ritirata li proteggesse, e sgomenti come porta la indole loro quando ne hanno tocche; noi altri avevamo due reggimenti di linea di riserva, due reggimenti di dragoni a cavallo, due squadroni di carabinieri, e il battaglione dei bersaglieri lombardi condotti dal colonnello Manara: questi nella giornata del 30 stettero su le armi, e non presero parte alla battaglia, perchè traditi a Civitavecchia davano la parola in pegno di non combattere prima del 4 maggio, e tanto bastava all’Oudinot fidente di tenere Roma prima di quel giorno, conto che gli andò proprio fallito; per ultimo le forze di un popolo ardente d’ira e di pietà! Si oppose Giuseppe Mazzini, e con lui gli altri Triumviri per risparmiare alla Francia la vergogna della piena sconfitta, e per non isperdere invano il sangue dei nostri giovani soldati combattendo allo aperto con veterani spertissimi: di tale partito i più degli scrittori riprendono il Mazzini, taluni spiegano il suo concetto, ma non lo lodano: di vero se la Francia avesse voluto procedere sempre con la consueta iattanza ne aveva tocche troppe, e male per non doversi vendicare, e se all’opposto con giustizia quanto più solenne la lezione, tanto più persuasiva: e poi co’ Francesi due nespole delle buone non guastano nulla; la esperienza ammaestra che fornita una impresa con la sua ruina si procede riguardosi a incominciarne un’altra, mentre la mezza batosta porge quasi lo addentellato a ripararla: arrogi l’acquisto delle armi, e alla verosimiglianza che di tanti prigioni in mano potenti per credito, e per autorità qualcheduno si mettesse paciere di mezzo proponendo condizioni comportabili. Per me giudico, che a perseverare nella lotta più che altro animasse il rapporto dell’Oudinot al Ministro della guerra a Parigi, il quale con l’arte nella quale i Francesi non conoscono non dirò pari, ma nè anco secondi affermava a faccia tosta: «non era nostro intendimento assediare, ma riconoscere la piazza, e ciò compimmo; così che dopo le nostre grandi guerre non si conosce per le nostre armi fatto più di questo glorioso!» E da tanto ch’ei lo giudicava glorioso che per l’angoscia ne infermò, e il Rusconi visitandolo lo rinvenne pallido e scontraffatto, e male con un diluvio di parole dissimulante l’ansietà dell’animo suo. All’opposto un medico francese scriveva agli amici suoi così: «temevamo una sortita e nel cammino occupato da tutte le parti, mi perito a dire che mai sarebbe accaduto; basta, come Dio volle, il nemico si rimase dietro le mura.» E nè anco questo è vero, però che il Garibaldi il giorno dopo li seguitò con la legione italiana, e qualche squadrone di cavalleria, ma indi per ordine del Governo retrocesse a Roma. Fra le altre non so se io mi abbia a dire fisime o bugiarderie dei Francesi ci fu quella di negare i danni per essi recati ai monumenti di Roma, senza accorgersi che smaniosi della lode per le virtù che non hanno, da sè medesimi si screditano nello attribuirsela per cose che fra loro contrastano, nè possono stare insieme; ed invero come avrieno potuto battere Roma dal lato del Vaticano senza offendere il Vaticano? Il generale Torre narra che una palla cristianissima frantumò certo immane triregno di travertino simbolo del potere temporale rotto per sempre dalle potenze cattoliche quando per forza di arme dentro le carni di Roma anzi d’Italia a mò di chiodo della passione lo riconficcarono. I rapporti dell’ingegnere Grass testimoniano quante palle di cannone e quante di moschetto offendessero il palazzo, e la basilica del Vaticano: due palle bucarono l’arazzo di Raffaello rappresentante la predicazione di S. Paolo nell’Areopago e il pezzo rimase attaccato alla palla: quattro fracassarono il tetto della cappella sistina; insomma menarono strage in quel giorno, e peggio fecero poi. Enrico Cernuschi per la sua piacevolezza, e per lo indomito ardire delizia del popolo romano andava dicendo non si affliggessero per cotesti danni, perchè la Francia aveva promesso pagarli e gli avrebbe pagati, che rigida osservatrice di sue promesse era la Francia, e ne porgeva fede cotesto caso perchè avendo eglino bandito volere entrare in Roma ci erano entrati di fatto; veramente non vincitori, bensì prigionieri, ma ciò non toglieva che al compito assunto non avessero dato recapito Comecchè io abbia tolto a favellare unicamente dei fatti di arme dello Assedio di Roma, non devo tacere delle donne patrizie o no ma nobilissime tutte che si consacrarono alla cura dei feriti.—Taluna di loro poi girò nel manico, e da per sè volle guasta la sua bella fama; anco gli scrittori clericali non si rimasero da turpi contumelie, ma se questi insudiciano non però fanno macchia, ed io con dolore sì ma non senza orgoglio registro, che Cristina Trivulzio principessa venne meno a sè medesima, chi crebbe fu Giulia Modena popolesca. Quando ci fu mestieri panni pei feriti si rinvenne mezzo spedito a procurarli oltre il bisogno; si tolsero carrette, e ad esse dietro parecchi uomini dabbene aggiravansi per la città con voci pietose facendo appello alla carità dei cittadini, e dalle finestre furono viste volare giù per la strada lenzuola, e di ogni maniera biancherie. Un vecchio, si narra, si condusse per verecondia dentro l’androne di certa casa, e quivi toltasi la camicia la porse lacrimando per sollievo ai feriti; senz’altro costui avrebbe offerto il cuore, e questi casi occorrono sempre là dove il popolo commosso da passione buona si lascia in balìa del proprio affetto: più arduo sciogliere i cuori impietriti dalla ira sacerdotale, però che a loro paia essere religiosi mostrandosi crudeli; tuttavia nelle donne prevale sempre la pietà, massime se le sieno giovani; di vero la mirabile carità delle signore conviventi nella casa di Tor de’ Specchi rappresentate dalla cittadina Galeffi dette il destro al virtuoso Aurelio Saffi di volgere loro queste nobilissime parole: «a fronte del sublime compenso, che queste amorevoli cittadine aspettano in un mondo migliore dalla loro carità, la prima delle virtù cristiane, i Triumviri ardiscono appena esprimere a queste gentili anime la più sentita gratitudine in nome della Patria.»
La ferocia dei barbari quantunque addolori pure non contrista tanto come la ipocrisia dei popoli, che si vantano civili, ed è ragione, che i primi in parte scusa l’ignoranza, mentre i secondi commettono due mali, il danno, intendo dire, e la menzogna per onestarlo; e poichè i Francesi bandiscono ai quattro venti la bandiera loro sventolare sempre colà dove appaia una causa civile a difendere, appena possiamo credere con quanta sfrontatezza negassero le ingiurie, che con le palle di cannone, le bombe, e perfino co’ moschetti recassero ai monumenti romani: si leggono tuttora i rapporti degl’Ingegneri commessi a verificare i danni, ed a ripararli; il pezzo lacerato, dall’arazzo del Sanzio senz’altro testimonio saria bastato a condannare i Francesi in giudizio. Gli è tempo perso; negli amici nostri ribolle sempre il mal sangue di Brenno; forse un giorno si correggerà tutto, ma la natura dei popoli cacciata via dalla porta torna dalla finestra.—Affermarono altresì, che i feriti loro patissero truci asperità dai nostri, ed i prigioni ingiurie; coteste le sono turpitudini che non importa rilevare nè anco; chi gli abbandonava senza pur visitarli fu un Forbin de Janson oratore di Francia a Roma, i nostri non misero differenza nell’opera della carità tra Francesi, e Italiani; anzi concessero, che gli amici loro dal campo venissero a consolarli con la nota faccia, e la favella del natio paese, chè lontani della Patria ogni conterraneo ci sembra parente.—
Nè importa a noi, e sarebbe bassa voglia, chiarire le bugiarderie dei rapporti dell’Oudinot, che francese egli era, ed aveva per dirle più bisogno degli altri; piuttostochè improvvido volle passare per gaglioffo; e tale sia di lui; la superbia offesa gli diede la febbre, e il Rusconi, chè lo vide in quel torno a Castel di Guido scrisse, secondochè notai averlo trovato stravolto, angosciando in mezzo ad un vaniloquio di errori, di minaccie, e di sospetti per non dire paure; poteva acchetarsi ad essere argomento di scusa, dacchè la fortuna delle battaglie stia in mano di Dio, prescelse farsi oggetto di scherno di faccia alla Europa: e’ sono soldati.
Somma la fede nostra come somma la perfidia dei Francesi: i bersaglieri del Manara bene stettero schierati a tutela della città, ma al combattimento del 30 aprile non pigliarono parte perchè riputaronsi vincolati dalla promessa di astenersi dalla zuffa fino al giorno quarto di maggio, e fu coscienza sciupata sia perchè non essi bensì il Preside di Civitavecchia aveva fatto la promessa, nè vincolava perchè estorta a forza e iniquamente, e poi i Francesi non osservarono mai promesse, nè patti: per ultimo quel dabbene Manara che fu quanto onore visse al mondo non andò immune da accusa per parte dello impronto nemico, il quale ardì appuntarlo di essersi rimasto in ordinanza con l’arme in collo durante la giornata del 30 aprile.
Cari amici, buon 75° anniversario del 25 aprile!
Purtroppo, più ci si allontana da quella data di liberazione dal “virus” nazifascista e da quella splendida pagina della Resistenza, chiamata giustamente Secondo Risorgimento, più ci rendiamo conto della precarietà della memoria storica, specialmente ora che siamo in procinto di entrare in un’altra epoca; stagione che già sta causando pesantissime conseguenze in ambito sanitario, lavorativo e sociale. Prepariamoci dunque a una nuova Resistenza, cercando di affrontare con serena consapevolezza il mondo che sta cambiando e anche i nuovi fascismi che si sono affacciati, sotto le più diverse sembianze, alla ribalta di un tempo globalizzato.
Nel giorno che evoca il ritorno alla libertà e alla democrazia, sancite da una splendida Costituzione repubblicana, il nostro pensiero torna alle persone della nostra Associazione che ci hanno lasciato e che avrebbero condiviso con grande partecipazione la ricorrenza:
Alberto Mori – nato a Codogno (Lodi) – classe 1930
Alcide Lamenza – nato a San Donato di Ninea (CS) – classe 1933
De Angelis Carlo – nato a Roma – classe 1936
Gianni Riefolo – nato a Roma – classe 1942
Il più giovane di questi cari Garibaldini degli anni 2000, Gianni Riefolo, è stato un attivo sostenitore delle ricorrenze del 25 Aprile dell’ANPI e della FIAP. Il più anziano, Alberto Mori, ci ha lasciato una testimonianza diretta della Resistenza partigiana al nazifascismo: la sorella Giuditta Mori , che fu staffetta e che subì il carcere rischiando la fucilazione. Di questa donna coraggiosa e sconosciuta vogliamo oggi fare memoria, affiancando i documenti che la riguardano all’immagine indimenticabile dei Fratelli Cervi, a quella di un gruppo di partigiani della Val di Susa e al fazzoletto-ricordo della breve Repubblica della Val d’Ossola, donataci da Alberto.
Paolo Macoratti