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DOMENICA 9 FEBBRAIO 2014 – ORE 10,30

La “Società di Mutuo Soccorso Giuseppe Garibaldi”,
l’ “Associazione Nazionale Garibaldina”,
l’Associazione “Garibaldini per l’Italia”,
l’ “Istituto di Studi Internazionali Giuseppe Garibaldi”

CELEBRERANNO IL 165° DELLA PROCLAMAZIONE DELLA REPUBBLICA ROMANA DEL 1849

Roma – Mausoleo – Ossario di Via Garibaldi, 29/e

CONDUCE:        Enrica Quaranta  
      

 INTERVENTI:

Giuseppe Garibaldi

 Maria Grima Serra 

 Barbara Ruggeri De Luca 

 Paolo Macoratti   

Franco Tamassia   

 

Non dobbiamo mai stancarci di fare memoria del capitolo più significativo del nostro Risorgimento, degli uomini e delle donne che hanno gettato le fondamenta della nostra Patria, delle radici del nostro futuro
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Alberto Mori, co-fondatore e Vicepresidente dell’Associazione

Garibaldini per l’Italia,

ci ha lasciato il 28 Gennaio 2014

Per molti di noi Alberto è stato un vero  e proprio amico fraterno; un amico onesto, intelligente, preparato culturalmente, modesto e sensibile. Un uomo “d’altri tempi”, si direbbe oggi; e questa è un’ affermazione che non sminuisce il suo valore, anzi  esalta la sua figura di uomo e di cittadino esemplare, rispettoso della Legge e amante della giustizia sociale.

 La sua persona ha saputo esprimere in ogni circostanza onestà, dignità, generosità; generosità che si manifestava, non solo nel sostegno di altri fratelli in difficoltà, ma soprattutto nella volontà di aiutare questa società a crescere in civiltà e  progresso, incitando le persone che incontrava durante il percorso di crescita dell’Associazione a mettersi in gioco e battersi per contrastare l’attuale, costante declino della società italiana.

Alberto è stato un nobile punto di riferimento per ognuno di noi e per l’Associazione Garibaldini per l’Italia; e lo sarà ancora, come tutti coloro che nel tempo hanno lottato e sperato nel miglioramento della condizione umana.

Alberto Mori è stato coerente con il pensiero mazziniano: “lo scopo della vita non è quello di essere più o meno felici, ma di rendere sé stessi e gli altri migliori”

Grazie, Alberto, per la tua amicizia e fraternità 

 vivi e vivrai sempre nei nostri cuori

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L’ASSOCIAZIONE “GARIBALDINI PER L’ITALIA”, RINNOVANDO LA SUA VICINANZA A SILVIA E ALLA FAMIGLIA MORI,  RINGRAZIA LE ISTITUZIONI, LE ASSOCIAZIONI E I SINGOLI CITTADINI CHE HANNO PARTECIPATO CON AFFETTO

Riportiamo un articolo di fondo del 12/01/2014 di Marco Travaglio che esprime con chiarezza di quale male soffra il Popolo italiano

 

Quando le intercettazioni dell’inchiesta sulla cricca della Protezione (In)civile immortalarono i due (im)prenditori che se la ridevano di gusto per il terremoto dell’Aquila appena tre giorni dopo la scossa fatale che aveva ucciso 309 persone, si pensò a un caso estremo, eccezionale, irripetibile di disumanità. Ora, dalle telefonate di 18 mesi dopo pubblicate dal Fatto e tratte da un’indagine frettolosamente archiviata dalla vecchia Procura dell’Aquila e riaperta da quella nuova, si comprende che quelle non erano le solite mele marce in un cestino di mele sane: è l’intero cestino che è marcio. L’assessore aquilano di centrosinistra Ermanno Lisi che, di fronte alla sua città in macerie, definisce il terremoto che l’ha distrutta una “botta di culo” per “le possibilità miliardarie” di “tutte ‘ste opere che ci stanno” e che “farsele scappa’ mo’ è da fessi, è l’ultima battuta della vita… o te fai li soldi mo’… o hai finito”, non è un fungo velenoso spuntato dal nulla. É la punta più avanzata di un sistema che chiamare corruzione è un pietoso eufemismo. Questi non sono corrotti. Questi sono subumani, vampiri, organismi geneticamente modificati che mutano continuamente natura verso la più bruta bestialità grazie all’omertà e all’inerzia di chi dovrebbe controllarli, fermarli, cacciarli. Non stiamo parlando di reati (per quelli c’è la giustizia, che con l’arrivo del procuratore Fausto Cardella è in buone mani anche all’Aquila). Ma di un’antropologia mostruosa che nessuno può dire di non aver notato. Che pena il sindaco Cialente, quello che garantiva vigilanza costante sugli appalti e sfilava con la fascia tricolore alla testa dei terremotati puntando il dito contro i governi che lesinavano aiuti, e non riusciva neppure a liberarsi di politici, professionisti e faccendieri come il capo dell’ufficio Viabilità del suo Comune che affidava lavori alla ditta del suocero. Il caso vuole che queste intercettazioni escano in contemporanea con il film di Paolo Virzì Capitale umano e con le demenziali polemiche per il presunto, ridicolo “vilipendio di Brianza”. Il film, straordinario grazie anche allo strepitoso cast, è ispirato al romanzo di Stephen Amidon e, anziché in Connecticut, è ambientato a Ornate. Ma l’ultima cosa che fa venire in mente a una persona normale (dunque non a certi leghisti e giornalisti di Libero, del Foglio e del Giornale) è la Brianza. É una storia universale – ben scritta da Francesco Bruni e Francesco Piccolo – di capitalismo finanziario selvaggio che, ai livelli più alti come in quelli più bassi, pensa di poter fare soldi con i soldi e intanto annienta sentimenti, amicizie, affetti, famiglie, cultura, vite umane. Vite che, quando si spengono, vengono misurate anch’esse in denaro, col registratore di cassa, dunque non valgono più nulla. “Abbiamo scommesso sulla rovina del nostro paese e abbiamo vinto”, dice trionfante il protagonista, Giovanni Bernaschi (Fabrizio Gifuni), mentre il suo alter ego straccione, Dino Ossola (Fabrizio Bentivoglio), si vende la figlia per riprendersi i 900mila euro perduti in una speculazione andata a male. Gli unici scampoli di umanità li preservano le donne, interpretate magistralmente dalle due Valerie, Golino e Bruni Tedeschi, e dall’esordiente Matilde Gioli.

Il merito principale del film è di illuminare le radici del fallimento di un paese ormai inutile, addirittura dannoso. Quello che si illudeva di chiudere il berlusconismo come fosse una parentesi e non lo specchio, la biografia di una certa Italia che Berlusconi ha soltanto sdoganato e resa orgogliosa della sua mostruosità, ma che gli preesisteva e gli sopravviverà: nelle classi dirigenti di destra di centro di sinistra, ma anche in vaste aree della “società civile”. Ogni squalo che fa soldi sulla pelle della gente, per ogni pirata che ruba sugli appalti, per ogni vampiro che succhia il sangue ai morti del terremoto si regge sul silenzio complice di decine, centinaia di persone. Che, fatta la somma, sono milioni. Troppe per sperare in un cambiamento imminente. Ma non troppe per rinunciare a prepararlo subito.

Da Il Fatto Quotidiano del 12/01/2014.


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CONVOCAZIONE DELL’ASSEMBLEA DEI SOCI DELL’ASSOCIAZIONE “GARIBALDINI PER L’ITALIA”

Domenica 26 Gennaio alle ore 17,00 ci riuniremo per il rinnovo delle tessere sociali  per il 2014. L’incontro, oltre a rappresentare un momento di verifica di quanto realizzato nel corso del 2013 e programmare le principali attività per l’anno in corso, ci consentirà di confrontarci su argomenti di attualità e su proposte innovative e operative.

 La convocazione è rivolta a tutti, anche a semplici simpatizzanti e possibili nuovi soci.

Hanno accolto il nostro invito:

La Presidente del Municipio Roma XII – Avv. Cristina Maltese

La Direttrice del Museo della Repubblica Romana  – Dott.ssa Mara Minasi

La Presidente del Comitato di Quartiere Monteverde 4venti – Licia Donati

 

SALA POLIFUNZIONALE  PIAZZA SAN PANCRAZIO N° 7  – Roma
( adiacente alla Basilica di San Pancrazio )

Erano presenti all’Assemblea, oltre al Presidente Onorario Maurizio Brigazzi e al Presidente Paolo Macoratti, i soci ordinari, alcuni simpatizzanti e  i soci Onorari Mara Minasi e Cinzia Dal Maso. Hanno offerto il loro contributo oratorio, la Direttrice del Museo della Repubblica Romana e della memoria garibaldina, Dott.ssa Mara Minasi ; La Presidente del Comitato di Quartiere Monteverde 4venti, Licia Donati ; Il Presidente dell’Ass. Altrevie – Claudio Bocci; la socia Onoraria Cinzia Dal Maso; il socio A.N.P.I. Gianni Riefolo, l’aspirante garibaldina Franca Nobile Spoletini. Sono stati accolti i nuovi soci: Prof. Carlo Felici,  Claudio Bocci, Carlo De Angelis , Mirna Verger, discendente, quest’ultima, di Paolo Narducci, primo caduto della Repubblica Romana del 1849.

LA SECONDA EDIZIONE DEL CONCORSO “INTERVISTE IMPOSSIBILI AGLI EROI DELLA REPUBBLICA ROMANA” , QUEST’ANNO DEDICATO A QUATTRO PERSONAGGI NON ITALIANI CHE PARTECIPARONO, DALL’APRILE AL GIUGNO 1849, AGLI SCONTRI SUL GIANICOLO (Ana de Jesus Ribeiro da Silva-Anita Garibaldi-, la giornalista americana Margaret Fuller, l’ufficiale francese Gabriel Laviron e il poeta polacco Adam Mickiewicz),  PROMOSSA DAL COMITATO DI QUARTIERE MONTEVERDE-4 VENTI E DALLA SCUOLA DI SCRITTURA OMERO, COSTITUISCE PER LA CITTADINANZA E PER I GIOVANI UNA BELLA OCCASIONE PER MANTENERE VIVA LA MEMORIA  DI UN MOMENTO STORICO  FONDAMENTALE PER L’IDENTITA’ ISTITUZIONALE DELL’ ITALIA REPUBBLICANA.

L’associazione Garibaldini per l’Italia ha aderito all’iniziativa e sarà presente nella Giuria della critica

FILASISTI CATEGORIA UNDER 18:

Graziella Lucchese – Marzia Riso – Marta Spizzichino

FINALISTI CATEGORIA OVER 18

Lorenzo Carlo – Stefano Durante – Andrea Mauri

SABATO 7 DICEMBRE HA AVUTO LUOGO LA LETTURA DEI BRANI DI OGNI SINGOLO CANDIDATO. ALLA PRESENZA DI UN PUBBLICO NUMEROSO SONO STATI SCELTI I VINCITORI, VOTATI DA UNA GIURIA POPOLARE E DA UNA GIURIA DELLA CRITICA FORMATA DAI PRESIDENTI DELLE ASSOCIAZIONI “COMITATO GIANICOLO”, “GLI AMICI DI RIGHETTO” E DEI “GARIBALDINI PER L’ITALIA”. TUTTI I BRANI, DI OTTIMA QUALITA’ SIA PER I CONTENUTI LETTERARI CHE PER  LA RICERCA DI UNA LETTURA CRITICA DELLA STORIA DEI SINGOLI PERSONAGGI, SONO STATI ACCOLTI DA CALOROSI APPLAUSI. LA NOSTRA ASSOCIAZIONE HA DONATO A OGNI CANDIDATO UNA MEDAGLIA-RICORDO DELL’EVENTO.

L’ASSOCIAZIONE GARIBALDINI PER L’ITALIA RINGRAZIA IL COMITATO DI QUARTIERE MONTEVERDE-4 VENTI E LA SCUOLA DI SCRITTURA CREATIVA “OMERO” PER AVER CONTRIBUITO A DIFFONDERE LA CULTURA DEL RISORGIMENTO E DELLA REPUBBLICA ROMANA TRA I GIOVANI E LA CITTADINANZA 

ERANO PRESENTI: CRISTINA MALTESE,  PRESIDENTE DEL MUNICIPIO XII DI ROMA CAPITALE,  LICIA DONATI PERELLI, PRESIDENTE DEL COMITATO DI QUARTIERE MONTEVERDE-4 VENTI, I MEMBRI DELLA SCUOLA DI SCRITTURA CREATIVA” OMERO”, LE SCRITTRICI  STELLA SOFRI E BRUNELLA DIDDI, IL CORO GUINIZELLI CON IL CORO DEL COMITATO DI QUARTIERE MONTEVERDE-4 VENTI.

 PREMIO CATEGORIA UNDER 18:

1^Graziella Lucchese – 2^Marzia Riso – 3^Marta Spizzichino

PREMIO CATEGORIA OVER 18

 1^ Andrea Mauri – 2^Lorenzo Carlo – 3^ Stefano Durante

PREMIO DELLA CRITICA UNDER 18 – Gabriella Lucchese

PREMIO DELLA CRITICA OVER 18 – Stefano Durante

 

Riportiamo due articoli di prima pagina del Fatto Quotidiano del 01/12/2013, a firma di Paolo Floris D’Arcais e Marco Travaglio, che esprimono con efficacia il forte disagio politico e culturale ancora presente nella società italiana malgrado  l’apparente fine, con l’espulsione  di Berlusconi  dal Senato della Repubblica, di una stagione torbida e decadente.  

LE MACERIE SOTTO IL COLLE

A cosa è servita la catafratta pervicacia di Giorgio Napolitano nell’imporre all’Italia in macerie le larghe intese? A nulla. Ad avere un governicchio che al Senato si regge sullo sputo di qualche voto, un monocolore Pd più pochi spiccioli iversamente erlusconiani, sulla cui qualità stendere un pietoso velo (Fabrizio “P2” Cicchitto, l’indagato per mafia Schifani, la setta Cl con Formigoni in testa …), monocolore al quale il prossimo segretario del Pd riserva ogni giorno il suo disgusto, mentre ingiustizia e iseguaglianza vanno al diapason, l’efficienza sotto i tombini, corruzione e familismo amorale banchettano più suntuosamente di Trimalcione. Pur di arrivare a questo esaltante risultato Napolitano ha ignorato il verdetto elettorale, che chiedeva a squarciagola la fine del berlusconismo mettendo per sovrammercato all’ordine del giorno la rottamazione della Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. Pur di precipitare l’Italia in questa morta gora Napolitano ha spacciato la leggenda di un Berlusconi partner del gioco democratico, quando anche i sassi sanno (e Fedele Confalonieri dixit, già un ventennio fa) che la sua “discesa” in politica era un modo per aggirare la galera e conservarsi l’indebito bottino massmediatico monopolistico accumulato grazie alle mene contra legem del suo sodale Craxi.

Berlusconi non poteva essere il Chirac italiano, poiché è sempre stato il Le Pen di Arcore o l’aspirante Putin della Brianza, un odiatore strutturale della democrazia liberale con la sua “balance of power” e soprattutto l’autonomia del potere giudiziario, tanto più nella versione italiana con la sua Costituzione “giustizia e libertà”. Il governicchio Lettalfano, di cui Napolitano è l’onnipotente Lord protettore, non farà altro, perciò, che ammassare altre macerie, materiali e morali, su quelle cui vent’anni di Berlusconi e di dalemiano inciucio hanno ridotto l’Italia. Mentre l’unica via per rinascere consiste in una monumentale redistribuzione delle ricchezze, che per il rilancio dell’economia applichi la ricetta del nuovo sindaco di New York, togliere ai ricchi per dare ai poveri, coniugata con un’autentica rivoluzione della legalità, che restituisca ai cittadini un barlume di speranza nella eguale dignità di ciascuno e nella liberazione dai Mackie Messer grandi e piccoli che a legioni spolpano e avviliscono il paese. Continueranno invece ad applicare la ricetta del sindaco di Londra, che predica “avidità e diseguaglianza” esaltando Gordon Gekko

Paolo Floris D’Arcais.

GLI APOTI

Ogni tanto qualche impiegato o ex impiegato di Berlusconi – tipo Pigi Battista, che andò a vicedirigere Panorama quando l’editore era già un leader politico e poi tentò di sostituire l’epurato Enzo Biagi su Rai1 con i risultati a tutti noti –
annuncia la fine del berlusconismo, e dunque dell’antiberlusconismo, e dunque del Fatto. Questi buontemponi passano la vita a incensare i governi, non importa il colore, e a bastonare le opposizioni senza accorgersi che la stampa libera fa esattamente l’opposto. Dunque pensano che un giornale libero possa nascere al solo scopo di combattere B. e debba morire con B. Il Fatto , come i nostri lettori ben sanno, è sorto con una missione un po’ più ambiziosa: dare le notizie che gli altri non danno. E gli altri, seguitando a non darle, lavorano per noi, del che li ringraziamo di cuore. Ora, per esempio, dopo aver molto laudato le larghe intese dei governi Monti e Letta con B., si dannano l’anima a magnificare il governo Letta senza B.. E a bastonare B. non perchè è B., ma perché non sta più al governo. L’impresa è titanica ma, siccome affratella il 99 per cento della cosiddetta informazione, rischia persino di riuscire.

Noi rappresentiamo quell’1 per cento di Apoti che non la bevono. Il berlusconismo è un male in sé, con Berlusconi, ma anche senza. Anzi, il berlusconismo senza Berlusconi è ancor più insidioso, perché si camuffa meglio, e si fa scudo del resunto merito di aver allontanato Berlusconi. In realtà Berlusconi non l’ha allontanato nessuno: se n’è andato lui quando ha capito che chi gli aveva garantito l’unica cosa che gli interessi, il salvacondotto, non voleva o non poteva mantenere la promessa. Ed è pronto a tornare per darselo da solo, il salvacondotto, se l’ennesimo governo delle tasse e delle banche lo resusciterà dall’avello: Monti docet.

Il berlusconismo è illegalità sbandierata e rivendicata, allergia alla Costituzione e ai poteri di controllo, guerra alla giustizia, conflitto d’interessi, commistione tra affari e politica. Possiamo dire che questo micidiale cocktail di cinque ingredienti il governo Napo-Letta è immune dopo la decadenza di Berlusconi e la sua uscita dalla maggioranza?

1) Illegalità sbandierata: da sette mesi Vincenzo De Luca (Pd renziano) siede abusivamente sulla doppia poltrona di sindaco di Salerno e viceministro delle Infrastrutture, senza contare che ha tanti processi quanti B., e nessuno l’ha sloggiato fino all’intervento dell’Antitrust; ma forse non basterà e bisognerà chiamare Gondrand.

2) Allergia alla Costituzione e ai poteri di controllo: la maggioranza Napo-Letta sta scardinando l’articolo 138 della Carta per poterne scassinare l’intera seconda parte e rafforzare vieppiù il governo a scapito del Parlamento (già da anni ridotto a ente inutile a colpi di decreti e fiducie), e ora insegue B. per ricomprarsi i suoi voti e impedire ai cittadini di votare al referendum finale.

3) Guerra alla giustizia: sull’altare della controriforma costituzionale, i pd Violante e Speranza e gli ncd Alfano, Cicchitto e Lupi vogliono mettere il guinzaglio alla magistratura e il bavaglio alla stampa per reimbarcare Forza Italia e ampliare gli spazi d’impunità dei soliti noti.

4) Conflitto d’interessi: a regolare la materia sono ancora le leggi Gasparri e Frattini, scritte dai prestanome di B., e nessuno parla o pensa di spazzarle via.

5) Commistione affari-politica: dalle fondazioni bancarie alle Asl, da Expo2015 alle aziende municipalizzate alle partecipate dallo Stato, Rai inclusa, i partiti gestiscono direttamente enormi affari; persino la legge-brodino sui fondi ai partiti, annunciata sei mesi fa da Letta jr., è scomparsa dai radar.

Su questi temi cruciali, non sul teatrino delle alleanze & decadenze, si misura il tasso di berlusconismo. Al momento, in Parlamento, solo i 5Stelle ne sono immuni. Il Nuovo Centrodestra è uguale al vecchio. E così il Quirinale e Letta jr., sponsor di Alfano & C. Tra una settimana sapremo se lo è anche il Pd di Matteo Renzi, o se magari cambia qualcosa.  

Marco Travaglio

La scomparsa di Luigi Magni, che tutti abbiamo stimato per  la passione e l’amore che ha saputo trasferire nei suoi film raccontando  Roma e la sua storia risorgimentale, ci porta a riflettere su due questioni importanti: innanzitutto la carenza  culturale e storica dei fatti e degli uomini narrati da Magni e che oggi appare enorme, confrontandola con quella registrata negli anni dell’uscita dei suoi film; in secondo luogo la totale assenza, nei progetti della cinematografia italiana, del tema risorgimentale quale strumento di propaganda e diffusione di valori e  principi  di alto contenuto civile e morale. Dibattito e riflessione critica che solo il cinema può suscitare attraverso l’immediatezza del suo messaggio. Come giustamente osservava Claudio Fracassi, l’America ha prodotto centinaia di film sulla conquista del West e sulla guerra di secessione, mentre il numero delle pellicole proposte dai cineasti italiani sugli eventi fondamentali della nostra storia repubblicana si contano sulle dita di una mano.

A Magni il merito di aver tentato di educare con i suoi film quel “Popolo” nato dalla Repubblica Romana del 1849; oggi, purtroppo, sempre più lontano dall’essere “Sovrano”.

p.m.

Brani tratti da “Nell’anno del Signore” (1966) e  da “In nome del papa Re” (1977)

http://www.youtube.com/watch?v=EfTCCHbRivA

http://www.youtube.com/watch?v=YlSfRqfMOXs

http://www.youtube.com/watch?v=z-HRgYrR_y0

http://www.youtube.com/watch?v=IXx1KxLuhpg

http://www.youtube.com/watch?v=uARGen1X2h0

E così se ne è andato anche Gigi Magni. E con lui se n’è
andata una voce che gli appassionati della libertà e della democrazia non
potranno non rimpiangere. In una vita di cinema ha messo al centro di una
riflessione colta e politicamente colorita non semplicemente Roma, come una
certa retorica semplificatoria (e forse volutamente semplificatoria) cerca di
far credere in queste ore; ma bensì la Repubblica Romana, quella straordinaria
avventura del 1849 che rappresenta la pietra di paragone della storia d’Italia,
il rimpianto costante per ciò che poteva essere e non è stato, il rimprovero
fastidioso per le cattive coscienze che hanno svenduto gli ideali del
Risorgimento. Già, il Risorgimento. Magni ha orgogliosamente riproposto i
valori e le idee dei decenni del riscatto dal servaggio italiano, ma non dal
punto di vista dei vincitori, di ciò che è stato possibile con la conquista
regia. Lo ha fatto con gli occhi e la passione dei giacobini dei decenni
precedenti l’accomodamento unitario, recuperando la radice vera della riscossa
risorgimentale, che era liberale molto più che nazionale, come ci ha insegnato
in un fondamentale volume del 1944 un intellettuale e politico acuto e ormai
dimenticato come Egidio Reale (Le origini dell’Italia moderna, Zurigo, Gilda del
libro). I giacobini dei film di Magni, i protagonisti di capolavori come
Nell’anno del Signore, Nel nome del Papa Re, Nel nome del popolo sovrano, sono
il suo vero lascito culturale prima ancora che cinematografico; non romani, o
comunque non necessariamente romani, ma liberali e anticlericali che si muovono
sullo sfondo dell’autoritarismo papalino, che vivono a Roma l’epopea della
Repubblica o il sogno rivoluzionario della libertà e della democrazia. Come
nella storia perdenti, ma mai umiliati, orgogliosamente fermi alla loro
battaglia. E la Costituzione del 1849, la prima scritta da una Assemblea
Costituente eletta a suffragio universale, coi suoi principi di libertà e
democrazia, con la separazione dei poteri, con l’abolizione della pena di morte
e della tortura, con la laicità e la libertà di culto, con la libertà di
opinione e l’abolizione della censura, con la riforma agraria, con i diritti
delle donne e il matrimonio civile, è a sua volta la protagonista, ora
esplicita, ora sottintesa, dei suoi film. C’è un fondo di amarezza in tutti i
film di Magni, di disillusione sugli italiani e sulla loro capacità di vivere
la politica, che è a un tempo giustificata da questa passione per gli sconfitti
della storia, ma almeno altrettanto da una insoddisfatta passione per
l’attualità, da un evidente dolore per l’immaturità democratica di un Paese che
non riesce proprio a dimostrarsi all’altezza dei giacobini che l’hanno sognata
e poi unita. E questa sensibilità lo ha fatto amare dai tanti che a quella
storia intendono testardamente riallacciarsi. Magni è stato il cantore dei loro
ideali e della loro storia, e oggi loro ne piangono la scomparsa. Non era
democraticismo di maniera, quello di Magni. Non vi è mai stata traccia di
populismo né di ingenuità nei suoi film. Semmai, al contrario, c’è sempre stata
seria consapevolezza minoritaria, lucida coscienza dei nostri limiti di popolo
immaturo, arrivato troppo tardi all’unità, alla democrazia, alla modernità.
Tanti di noi, nel commentare l’attualità, sentono ancora salire alle labbra le
parole amare che Magni mette in bocca a Robert Hossein che impersona il
Montanari giustiziato assieme a Targhini da Mastro Titta nelle scena finale de
Nell’anno del Signore: “Bonanotte, popolo”. Addio, Magni, buona notte a te.
Forse questo popolo non si sveglierà mai; ma ci saranno sempre quelli che
conserveranno la passione cantata nei tuoi film: “La bella ch’è prigioniera Ha
un nome che fa paura Libertà, libertà, libertà”

Giovanni  Vetritto -
da www.criticaliberale.it

Domenica 8 settembre 2013 si è svolta a Roma l’Assemblea dei firmatari di un documento, che riportiamo in questa pagina, firmato da:  LORENZA CARLASSARE, DON LUIGI CIOTTI, MAURIZIO LANDINI, STEFANO RODOTA’, GUSTAVO  ZAGREBELSKI

L’Associazione Garibaldini per l’Italia, dopo aver letto il documento e ascoltato le ragioni dei firmatari, ha deciso di aderire alla manifestazione del 12 ottobre 2013, mobilitando tutti quei cittadini che intendano salvaguardare la Costituzione, attualizzandone e realizzandone i princìpi fondamentali.

1. Di fronte alle miserie, alle ambizioni personali e alle rivalità di gruppi spacciate per affari di Stato, invitiamo i cittadini a non farsi distrarre. Li invitiamo a interrogarsi sui grandi problemi della nostra società e a riscoprire la politica e la sua bussola: la Costituzione. La dignità delle persone, la giustizia sociale e la solidarietà verso i deboli e gli emarginati, la legalità e l’abolizione dei privilegi, l’equità nella distribuzione dei pesi e dei sacrifici imposti dalla crisi economica, la speranza di libertà, lavoro e cultura per le giovani generazioni, la giustizia e la democrazia in Europa, la pace: questo sta nella Costituzione. La difesa della Costituzione non è uno stanco richiamo a un testo scritto tanti anni fa. Non è un assurdo atteggiamento conservatore, superato dai tempi. Non abbiamo forse, oggi più che mai, nella vita d’ogni giorno di tante persone, bisogno di dignità, legalità, giustizia, libertà? Non abbiamo bisogno di politica orientata alla Costituzione? Non abbiamo bisogno d’una profonda rigenerazione bonificante nel nome dei principi e della partecipazione democratica ch’essa sancisce? Invece, si è fatta strada, non per caso e non innocentemente, l’idea che questa Costituzione sia superata; che essa impedisca l’ammodernamento del nostro Paese; che i diritti individuali e collettivi siano un freno allo sviluppo economico; che la solidarietà sia parola vuota; che i drammi e la disperazione di individui e famiglie siano un prezzo inevitabile da pagare; che la partecipazione politica e il Parlamento siano ostacoli; che il governo debba essere solo efficienza della politica economica al servizio degli investitori; che la vera costituzione sia, dunque, un’altra: sia il Diktat dei mercati al quale tutto il resto deve subordinarsi. In una parola: s’è fatta strada l’idea che la democrazia abbia fatto il suo tempo e che si sia ormai in un tempo post-democratico: il tempo  della sostituzione del governo della “tecnica” economico-finanziaria al governo della “politica” democratica. Così, si spiegano le “ineludibili riforme” – come sono state definite –, ineludibili per passare da una costituzione all’altra. La difesa della Costituzione è dunque innanzitutto la promozione di un’idea di società, divergente da quella di coloro che hanno operato finora tacitamente per svuotarla e, ora, operano per manometterla formalmente. È un impegno, al tempo stesso, culturale e politico che richiede sia messa in chiaro la natura della posta in gioco e che si riuniscano quante più forze è possibile raggiungere e mobilitare. Non è la difesa d’un passato che non può ritornare, ma un programma per un futuro da costruire in Italia e in Europa.

2. Eppure, per quanto si sia fatto per espungerla dal discorso politico ufficiale, nel quale la si evocava solo per la volontà di cambiarla, la Costituzione in questi anni è stata ben viva. Oggi, ci accorgiamo dell’attualità di quell’articolo 1 della ostituzione che pone il lavoro alla base, a fondamento della democrazia: un articolo a lungo svalutato o sbeffeggiato come espressione di vuota ideologia. Oggi, riscopriamo il valore dell’uguaglianza, come esigenza di giustizia e forza di coesione sociale, secondo la proclamazione dell’art. 3 della Costituzione: un articolo a lungo considerato un’anticaglia e sostituito dall’elogio della disuguaglianza e dell’illimitata competizione nella scala sociale. Oggi, la dignità della persona e l’inviolabilità dei suoi diritti fondamentali, proclamate dall’art. 2 della Costituzione, rappresentano la difesa contro la mercificazione della vita degli esseri umani, secondo le “naturali” leggi del mercato. Oggi, il dovere tributario e l’equità fiscale, secondo il criterio della progressività alla partecipazione alle spese pubbliche, proclamato dall’art. 53 della Costituzione, si dimostra essere un caposaldo essenziale d’ogni possibile legame di cittadinanza, dopo tanti anni di tolleranza, se non addirittura di giustificazione ed elogio, dell’evasione fiscale. Ecco, con qualche esempio, che cosa è l’idea di società giusta che la Costituzione ci indica. Negli ultimi anni, la difesa di diritti essenziali, come quelli alla gestione dei beni comuni, alla garanzia dei diritti sindacali, alla protezione della maternità, all’autodeterminazione delle persone nei momenti critici dell’esistenza, è avvenuta in nome della Costituzione, più nelle aule dei tribunali che in quelle parlamentari; più
nelle mobilitazioni popolari che nelle iniziative legislative e di governo. Anzi, possiamo costatare che la Costituzione, quanto più la si è ignorata in alto, tanto più è divenuta punto di riferimento di tante persone, movimenti, associazioni nella società civile. Tra i più giovani, i discorsi di politica suonano sempre più freddi; i discorsi di Costituzione, sempre più caldi, come bene sanno coloro che frequentano le aule scolastiche. Nel nome della Costituzione, ci si accorge che è possibile parlare e intendersi politicamente in un senso più ampio, più elevato e lungimirante di quanto non si faccia abitualmente nel linguaggio della politica d’ogni giorno. In breve: mentre lo spazio pubblico ufficiale si perdeva in un gioco di potere sempre più insensato e si svuotava di senso costituzionale, ad esso è venuto affiancandosi uno spazio pubblico informale più largo, occupato da forze spontanee. Strade e piazze hanno offerto straordinarie opportunità d’incontro e di iconoscimento reciproco. Devono continuare ad esserlo, perché lì la novità politica ha assunto forza e capacità di comunicazione; lì si sono superati, per qualche momento, l’isolamento e la solitudine; lì si è immaginata una società diversa. Lì, la parola della Costituzione è risuonata del tutto naturalmente.

3. C’è dunque una grande forza politica e civile, latente nella nostra società. La sua caratteristica è stata, finora la sua dispersione in tanti rivoli e momenti che non ha consentito di farsi valere come avrebbe potuto, sulle politiche ufficiali. Si pone oggi con urgenza, tanto maggiore quanto più procede il tentativo di cambiare la Costituzione in senso meramente efficientistico-aziendalistico (il presidenzialismo è la punta dell’iceberg!), l’esigenza di raccogliere, coordinare e potenziare il bisogno e la volontà di Costituzione che sono diffusi, consapevolmente e, spesso, inconsapevolmente, nel nostro Paese, alle prese con la crisi politica ed economica e con la devastazione sociale che ne consegue. Anche noi abbiamo le nostre “ineludibili riforme”. Ma, sono quelle che servono per attuare la Costituzione, non per cambiarla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

http://video.repubblica.it/politica/rodota-e-landini-ripartire-dalla-via-maestra/139464/138005

Riportiamo l’articolo di Roberta De Monticelli apparso su Micromega il 19 settembre 2013

1. Una ragione
C’è una ragione profonda per la quale torniamo oggi a sentire la difesa e l’attuazione della Costituzione come il solo richiamo che non è lecito non ascoltare: anzi, per la quale cominciamo a sentire – come con finezza nota il testo de “La via maestra” – che “i discorsi di politica suonano sempre più freddi; i discorsi di Costituzione, sempre più caldi”, soprattutto fra i giovani.

Questa ragione ha una parte visibile e una invisibile. Quella visibile è la degradazione sempre più evidente che subiscono da una ventina d’anni a questa parte – ma negli ultimi anni e mesi in misura crescente – l’attività, l’aspetto, il linguaggio, la competenza e perfino il decoro della maggior parte dei politici di professione, siano di lungo corso, siano giovani, rampanti e rapaci, o rampolli delle burocrazie correntizie dei partiti, o delle loro consorterie aziendali. Il testo de La via maestra apre su questo fenomeno: “Di fronte alle miserie, alle ambizioni personali e alle rivalità di gruppi spacciate per affari di Stato…”.

Dal punto di vista politologico, questa involuzione si può davvero descrivere come l’effetto di una oligarchica, sebbene in una sua chiave particolarmente italiana, cioè consortile e scilipotica, una chiave che mescola elementi universali di degenerazione populista della democrazia a elementi nazionali e locali di violenza (verbale, finora), conformismo servile e cinismo brutale.

Ma dal punto di vista “filosofico” questa involuzione corrisponde a un grado non ancora visto prima, nel secondo dopoguerra europeo, di erosione dell’elemento normativo nello spazio pubblico, sia esso quello istituzionale del Parlamento o quello dalla pubblica opinione, della discussione pubblica e dell’informazione. In altre parole, prevale ovunque la più pericolosa delle confusioni: quella fra diritto e potere, giurisdizione e politica, vigente dover essere e realtà di fatto, o di forza. E’ questa confusione o addirittura subordinazione del primo termine al secondo, la parte profonda, spesso nascosta alla coscienza distratta, della ragione per cui sentiamo la necessità di difendere la Costituzione – e di applicarla,
naturalmente. Siamo oggi arrivati all’estremo di un lungo processo di distruzione di quella sfera pre-politica – cioè sottratta in linea di principio tanto al negoziato che allo scontro politici – che è il patto di cittadinanza stesso, il recinto di regole entro cui può svolgersi l’agone politico, o infine la norma sottratta alla forza, senza la quale uno Stato non si distingue concettualmente da una banda di briganti.

Questa erosione della norma sotto il peso del fatto e della forza ha avvelenato non solo il diritto, che è stato contorto ad accogliere ogni perversione, fino a soffocare nella sua incoerenza ogni pratica e a umiliare nella sua ingiustizia ogni aspirazione, ogni speranza; essa ha avvelenato anche il linguaggio. Forse il veleno peggiore è proprio questo: che la normalità di questa Repubblica sia diventata il fatto di disprezzarla, che oggi pochi sentano più nella parola “normale” il significato della norma, della normatività che diamo a noi stessi per diventare civili, e ci distingue non dalle bestie, che incivili non sono, ma dalle cosche e dalle bande di briganti. Che per “normale” ciascuno intenda quello che di fatto va così, e “quindi” è giusto che vada così. E’ quel “quindi” che è osceno, anche quando resta implicito, muto nella testa di chi trova tutto questo “normale”: e poche sono le orecchie che ne restano ferite quando è ribadito ogni giorno sulle pagine di tutta la grande stampa nazionale, o ripetuto nei salotti televisivi.

L’oscenità di quel “quindi” è tutt’uno col veleno che uccide diritto, linguaggio e coscienza morale e civile. E questa è una situazione divenuta ormai intollerabile proprio per chi – come molti di noi – pensa che il bene più prezioso, accanto all’eguaglianza dei cittadini, sia precisamente la loro libertà. Chi pensa questo non vuole avere né accetterebbe altra difesa dalla nostra stessa libertà (la quale nove volte su dieci non è orientata al bene comune, e nonostante questo è irrinunciabile) che quella delle regole e delle istituzioni che noi stessi ci siamo dati per porre limiti alla nostra ferinità rapace. Ma oggi vediamo, semplicemente, che questa difesa non c’è più. Questo non è più tollerabile.

Ci sono due momenti simbolici del punto estremo raggiunto da questa progressiva fagocitazione della norma da parte della forza, che potremmo chiamare autofagia della politica – con il suo caratteristico effetto: la trasformazione del corpo
politico in materiale da escrezione. Il primo momento simbolico è rappresentato da un parlamento che trasforma in negoziato politico quella che è a tutti gli effetti la rivolta di un singolo cittadino contro la legge che a tutti si applica. Un parlamento che accetta in maggioranza di mercanteggiare sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, di farne oggetto di trattativa politica: c’è forse un modo migliore di svuotare le istituzioni di una res publica di qualunque  credibilità o autorevolezza? Ne discende l’incoerenza più spettacolare che la storia di questa Repubblica ricordi: un parlamento che a questo scopo, in una sua parte, rimette in questione una legge che quel parlamento stesso ha
approvato all’unanimità pochissimo prima – e per forza: dato che semplicemente la legge esige da chi ha condanne definitive per gravi reati, magari addirittura contro le istituzioni della Repubblica, che non continui a rappresentare di fronte ai cittadini e al mondo le istituzioni della Repubblica.

Il secondo momento simbolico di questa autofagia della Città si vede in un capo dello Stato che da un lato “prende atto” di una condanna definitiva di un cittadino, e dall’altro ritiene “legittime” le rimostranze contro magistrati e sentenza, e la difesa dalle sue conseguenze in sede politica (dichiarazione del 13 agosto 2013). Non è incredibile questa contrapposizione della legalità alla legittimità, da parte del Presidente di una Repubblica basata, fino a prova contraria, sul “governo della legge”, in quanto opposta all’arbitrio del potere? Ma questi due momenti simbolici sono soltanto il proscenio di ciò che accade, che continua ad accadere oggi – e che il clamore di cui sopra nasconde. Ecco: un parlamento che approva un decreto somigliante a un piè di porco: quello che serve per scassinare la serratura della Costituzione (l’art. 138) – nonostante le ragioni in contrario cui si sono appellati mezzo milione di cittadini, che sono poi le ragioni di tutti i migliori costituzionalisti. Si sostiene che non sia una deroga: e ancora una volta si stravolge il senso delle parole. Ma come non è una deroga, se l’articolo prevede determinati tempi e determinati modi per cambiare la Costituzione, e sia i tempi che i modi vengono modificati?

Sempre l’abbandono del limite pre-politico, cioè della norma che è condizione perché la politica resti civile, porta con sé le più spericolate contraddizioni: in etica pubblica questo è accertato, che violare l’etica (il pactum che era servandum)
è praticamente impossibile senza violare la logica. C’è una legge anticostituzionale, o almeno in fortissimo sospetto di esserlo (leggi Porcellum)? Bene, allora il solo modo di cambiarla è cambiare la Costituzione. Lo disse il Presidente del Consiglio, il 3 settembre 2013. Bisogna dunque inserire la nuova legge elettorale nel pacchetto di riforme che il Comitato dei Saggi (s’è mai vista una cosa simile? E il referendum vittorioso del 2006?) va elaborando.

Ma una democrazia non si fonda solo sulla divisione dei suoi poteri: si fonda anche sull’indipendenza dell’informazione, senza cui non può esserci libera discussione pubblica, spazio delle ragioni. Appunto: la grande stampa tratta tutto questo come se si trattasse di “normale” dialettica di opinioni. Fino a levar di mezzo i fatti: ad esempio – perché ben poco se ne è saputo sulla grande stampa – un appello ragionato contro questa deriva firmato da quasi mezzo milione di cittadini. Mezzo milione di cittadini che per giunta si sono sentiti dare delle vittime di una volgare iniziativa populista. Populisti sarebbero dunque quelli che si appellano alle procedure imposte dalla Costituzione a chi voglia cambiarla cambiarla, non quelli che la cambiano in modo truffaldino per limitare ulteriormente il ruolo di un Parlamento già tanto umiliato: tanto da non avere in questa trasformazione che un ruolo di spettatore, in pratica. Da legittimare una trasformazione della forma di governo che, se la lasciamo fare, avverrà quasi a sua insaputa. E a nostra insaputa, naturalmente.

Kant lo aveva spiegato con chiarezza. La corruzione di fatto, è tale e basta. Ma la corruzione del diritto, oppure la corruzione del linguaggio (nella menzogna quando è elevata a sistema: pensate al linguaggio dei politici italiani quasi senza eccezione), è semplicemente la fine della possibilità di distinguere la corruzione dall’onestà, o la verità dalla falsità. La corruzione dell’ideale, della norma, è infinitamente peggiore della corruzione entro la norma o sotto la norma. Per questo è così agghiacciante che un governo – e un governo che Barbara Spinelli ha definito “contro natura”, perché nato da un’infedeltà elettorale (“Il Fatto Quotidiano”, 12/09/2013) – si consideri seduto non sotto la nostra Costituzione, ma seduto sopra di essa, al punto di arrogarsi un potere costituente che non avrebbe se non entro quei limiti, quei tempi e quei modi che invece sta forzando.

Il veleno peggiore è proprio questa violenza fatta alle parole. Per cui una deroga non è una deroga, per cui si chiama illegittimità la legalità, “responsabilità” l’omertà, “democrazia” la consorteria…
Dove però il significato delle parole è rovesciato nel loro contrario, diventa impossibile ogni discussione, come ben sanno i “ministri della verità” in mondi possibili non tanto lontani dal nostro, con le loro “neolingue”, dove ‘La guerra è pace’, ‘La libertà è schiavitù’, ‘L’ignoranza è forza’. E naturalmente, l’illegalità è legge. Alla parola che esprime liberamente e con trasparenza il pensiero, nel faccia a faccia della discussione, non rimane allora più che il senso di una finzione teatrale. Anche il Parlamento è ridotto a un teatrino. Così le basi della democrazia sono veramente erose. Non ci si dovrebbe stupire se fra le rovine di una lingua, in mezzo a questa melma di parole violentate, non resti a chi chiede giustizia che l’urlo.

Che cosa abbiamo da perdere se accettiamo questa deriva? Tutto. Il terreno sotto i piedi, l’eredità di casa, il passato, la memoria. E l’aria per respirare, lo slancio per creare, il futuro, la speranza. I due valori che danno senso al nostro stare insieme, al nostro comune destino.
2.
Due valori – ovvero dell’amor di matria

Tutti lo sanno: niente ci appare più prezioso, di valore più inestimabile, di quello che rischiamo di perdere, o che abbiamo già perduto. Questa è l’esperienza che ciascuno conosce, e che oggi e qui possiamo esemplificare non solo con esempi tratti dalla sfera privata, ma anche dalla sfera pubblica. In effetti, la cognizione del dolore è la cognizione del valore. E qui ci sovviene il dolore della perdita che incombe – o che molti considerano già un lutto: quello di una perdita della patria. E se questa parola non convince, possiamo fare come i tedeschi, che meglio di noi hanno saputo far opera di catarsi di un passato tanto tragico. Facciamo pure come molti di loro, che la chiamano ormai Mutterland, e non più Vaterland. Chiamiamola pure matria.

Mi limiterò a due dei valori che risplendono nel lutto che per loro soffriamo. Il primo è la bellezza dissipata, lo scempio che si continua a fare dei paesaggi storici italiani, con la cementificazione più sregolata (e l’attuale governo, quanto a misure in questo senso, non sembra fare eccezione). Specie lungo le coste, nelle montagne squarciate dalle grandi strutture, nelle colline dei pittori rinascimentali e dei macchiaioli sbancate dalle autostrade inutili, nelle baie ancora piene di memorie archeologiche, umiliate da porti turistici spesso addirittura criminali per l’indicibile viluppo di soldi pubblici e interessi privati che ne sono all’origine, per gli stupri paesaggistici e le bombe ambientali che spesso costituiscono, per l’irreversibile distruzione di patrimonio comune non solo italiano, ma in alcuni casi “dell’umanità”. E poi c’è il dolore per le istituzioni infangate dalla confusione di diritto e potere, di norma e forza, di legge e calcolo politico: e anche questa è cognizione del valore di ciò che perdiamo. Ecco due esempi di cognizione del valore attraverso il dolore. Cognizione del valore in senso lato estetico – bellezza , e del valore in senso lato etico – giustizia. Non bisognerebbe affatto opporle, ed è ora di smetterla di pensare che la bellezza sia un lusso. In questo caso lo è anche la giustizia, sommamente violata con la distruzione di tutto ciò che dà senso e valore alla nostra vita. E una vita costretta a contemplare ovunque solo disarmonia,
disordine e brutture, una vita in ambienti privi di senso, molto somiglia alla condizione estrema denunciata da Kant: “dove la giustizia viene meno, non ha più valore la vita degli uomini”. Non vale la pena che costa, appunto. E si può mostrarlo.

La bellezza che era il volto e la carta di presentazione di questo Paese era anche il nostro volto, era parte della nostra identità. Appartiene al fondamento direi esistenziale e spirituale della nostra vita. E’ nostra eredità, nostro dovuto: è come la terra che ci sostiene e ci circonda in quanto è carica di passato e di memoria, terra dei nostri padri, patria. O matria, se preferite. (Simone Weil diceva che non c’è tragedia più grande che la perdita del passato, non in quanto tale ma in quanto nutrimento dell’anima, come un campo di grano non vale per se stesso ma per le vite che nutre…) . La giustizia invece fonda l’aspetto ideale della nostra convivenza – dove per “ideale” intendo appunto non ciò che è di fatto, ma ciò che dovrebbe essere, non il costume vigente, ma la norma civile, la norma pre-politica, appunto, il fondamento di una politica che non sia priva di vincoli o di limiti.

E anche questo valore fa di un paese una patria: una patria ideale, appunto, una specie di sogno per noi – il sogno che era quello dei padri e delle madri o degli avi, alcuni dei quali morirono ragazzi con questo sogno in cuore.  E così abbiamo anche, en passant, definito due sensi di questa cosa di valore, cosa da amare e cosa vicina ad essere perduta, che chiamiamo nostra. Patria o matria, è indifferente. Da un lato il patrimonio comune, il passato e il terreno sotto i piedi, l’ambiente di senso (o di nonsenso) che ci circonda. Dall’altro la casa e la cosa ideale di tutti, la Res Pubblica appunto, il patto che la regge, il sistema di limiti, equilibri e pesi in cui consiste il buon ordinamento, cioè la giustizia, che non a caso ha la bilancia come immagine. Patria sognata è una società giusta, o più giusta di questa. E questa non è una società giusta per molti aspetti, ma ce ne sono oggi di talmente plateali da togliere il respiro. Non è questa o quella particolare ingiustizia che è oggi sotto i nostri occhi semichiusi, è la possibile distruzione delle condizioni stesse di un ordine e di una giustizia, di una civitas. Ecco la ragione profonda e i valori traditi che mi spingono a sostenere con tutte le mie forze l’appello a un movimento per La via maestra, la via per noi ma soprattutto per i nostri figli.

(19 settembre 2013)

 

Navigando su internet ci siamo imbattuti in questo interessante articolo che affronta un argomento che ci sta particolarmente a cuore: l’Educazione Civica. Il sito di riferimento è www.gliscomunicati.it  e l’autrice si chiama Emilia Urso Anfuso.

Diversi anni fa in Italia, nelle scuole medie e superiori, vi era l’obbligo di insegnare l’Educazione Civica. L’ora di educazione civica, fu introdotta da Aldo Moro nel 1958 e fu soppressa d’improvviso, durante l’anno scolastico 1990/91. Non fu l’effetto di una riforma della scuola statale, ma l’inizio penoso dei tagli finanziari al comparto scolastico che – fino al 1990 – poteva contare su una notevole fetta del bilancio nazionale,  pari al 10,3% del totale della spesa pubblica. Una riforma scolastica ci fu, nel 1990, ma dedicata solo alla scuola primaria. Le motivazioni addotte all’epoca a supporto dell’eliminazione dell’ora di Educazione Civica furono veramente incoerenti o comunque, prive di significato. Si disse semplicemente” che nella società ormai “evoluta” (…) l’insegnamento di ciò che è o dovrebbe essere il comportamento di ogni singolo cittadino nei confronti della nazione che abita, a cominciare dallo studio approfondito di cosa sia la nazione, le sue istituzioni e la Costituzione che ne è il libretto di istruzioni fondamentale, non fossero prioritari.

Ciò consentì di ridurre, da un lato una parte della spesa economica ma dall’altro sostenne la  riduzione del sensi civico che per ovvie ragioni di “evoluzione” avrebbe sistematicamente portato una nazione civile verso la china dell’assoluta inciviltà – che significa in questo caso, perdita di cultura fondata sui valori – col beneplacito delle istituzioni che – probabilmente – ordivano già all’epoca una sorta di programma di sovvertimento del sistema civile.

In sintesi: se la popolazione non viene istruita sul senso civico, la conseguenza diretta sarà di avere una popolazione poco civica, con un basso senso del dovere e con una scarsa conoscenza delle Istituzioni, cosa atipica alquanto in un regime Democratico, che invece dovrebbe sostenere al massimo proprio la cultura e quindi la conoscenza della Repubblica – nel nostro caso – allo scopo di creare generazioni di persone consce dei propri diritti e – di conseguenza – dei propri doveri verso il popolo e quindi, la nazione.

Oggi, molte persone che hanno a suo tempo avuto nel loro programma di studi l’ora di Educazione Civica, la ricordano come “L’ora più noiosa della settimana“. Peccato, perché probabilmente quelle persone, sono oggi i cinquantenni che sbraitano contro il “sistema” che – a loro dire – li ha penalizzati, vessati, uccisi, traditi “Forse” se durante l’ora di Educazione Civica, invece di lanciare aeroplanini di carta e palline contro i compagni del primo banco che seguivano assorti la lezione, oggi questi cittadini incazzati, oltre ad avere un livello di cultura che avrebbe consentito loro di saper scegliere negli anni le soluzioni migliori per il paese, partecipando attivamente alla vita istituzionale – proprio come veniva spiegato durante quell’ora “noiosa” – ci troveremmo tutti in una condizione diversa, semplicemente perché tutti ci sentiremmo forti delle nostre ragioni per il solo fatto che essere consapevoli di ciò che è un diritto e di come  un dovere non sia mai da evitare, sapendo che l’osservazione pedissequa del dovere ci ritorna sempre in una serie infinita di diritti.

Invece, l’ora di Educazione Civica sparì, con sommo gaudio di milioni di citrulli interessati più all’ora di ricreazione che allo studio e quindi all’alimentazione fondamentale – che non è quella a base di pizzette e bombe alla crema – della sapienza, che in Italia è divenuta fonte di scherno al solo nominarne la parola. Incredibilmente, persino all’interno della Riforma Gelmini stilata e messa in vigore fra il 2008 ed il 2009 per le scuole di primo e secondo grado, vi fu un tentativo di reintroduzione dell’ora di Educazione Civica – con altro nome però, come per adeguarsi ai tempi “civili”, materia rinominata con “Cittadinanza e Costituzione“. Nella realtà dei fatti però in qualsiasi maniera la si voglia chiamare, la reintroduzione non attecchì, proprio come l’innesto di un verde virgulto in un ramo ormai del tutto rinsecchito.

E’ interessante riflettere contemporaneamente su un altro punto: l’ora di religione. Che proprio durante gli anni di disfacimento culturale del senso civico italiano attraverso l’abbattimento di una cultura globale, ha trovato grande
adesione e sostegno all’interno della scuola pubblica, quasi a compimento di una trasformazione, una traduzione fra laicità dello Stato e conseguenti diritti dei cittadini laici e religiosità frammista a politica, che esige fino ad imporre la propria assoluta visione ortodossa che tutto avviluppa, a cominciare dalla libertà di pensiero.

Notevole di contro ricordare come – in special modo negli ultimi anni – la costante dei tagli finanziari alla scuola pubblica sia sempre corrisposta a generosi trasferimenti economici al comparto della scuola paritaria: nel nostro
paese quasi totalmente in mano agli istituti religiosi. Un esempio per tutti: gli 8mln di euro passati in un attimo dal comparto pubblico a quello paritario durante l’ultimo governo Berlusconi… Dissero che era per “agevolare le famiglie nella scelta – più ampia – di istituti scolastici”…

Tornando all’Educazione Civica e al processo di debellazione del senso civico in Italia: tutto ciò cui stiamo assistendo oggi, è anche frutto di questo diritto /  dovere negato agli italiani che, inconsapevoli ormai di un senso civico condiviso, non sono più in grado ormai da anni di avere netto in mente il senso del bene e del male, con la conseguenza aberrante che – la maggior parte della popolazione – non è più in grado di poter porre veti a metodi e azioni che proprio dalle istituzioni partono contro la popolazione stessa che non è stata così più in grado di essere consapevole di cosa sia concesso fare e cosa non lo sia. Rendendo possibile ogni misfatto. Chi conosce, chi ha cultura civica, sa come rispettare le regole per farle rispettare di conseguenza a proprio vantaggio. Creando così un vantaggio per tutta la comunità. E’ un anello infinito che non si spezza o meglio: non si sarebbe spezzato.

Eccoci qui invece, a patire l’assurdo. Non si comprende più chi siano i “cattivi” e chi i “buoni”. Non si capisce se è la popolazione ad aver inciuciato per anni i fattarelli propri lasciando così che le istituzioni a loro volta inciuciassero i fattarelli loro, che proprio fattarelli loro non sono, visto che gestiscono da sempre i soldi nostri…

Ecco, l’Italiano medio è così. Ha tutto a portata di mano, tutto il meglio, ma non sa mai cosa farsene. Getta alle ortiche la cultura, preferisce la “fede” calcistica a quella verso il diritto di ognuno di esistere dignitosamente, passa anni ed anni a sonnecchiare mentre tutto va in pezzi per poi – sempre – svegliarsi all’ultimo momento, accorgersi che il treno è molto lontano ormai e mettersi a bestemmiare contro un fantasma che a mio parere non ne può davvero più di essere preso a parolacce da tutti: è il fantasma del “sistema”, che serve a tutti quanti a lavarsi la coscienza dai misfatti compiuti per anni ed anni ogni giorno, contro tutto, contro se stessi. Forse, piuttosto che il reinserimento dell’ora di Educazione Civica, oggi questa nazione ha necessità urgentissima di un’altra materia: la coerenza. La parola “coerente” è riferita a persona che non contraddice né disdice ciò che ha fatto o detto. Semplicemente. Se quindi vogliamo essere coerenti con noi stessi e con la nazione in cui viviamo, dobbiamo armarci dell’unica arma possibile e legalmente utilizzabile: la cultura dell’etica civica.

Bisognerebbe insegnar tutto questo fin dall’asilo. Probabilmente, fra un paio di secoli, questo paese potrebbe davvero cambiare in meglio…

Emilia Urso Anfuso

Ormai non facciamo più attenzione al degrado urbano delle periferie e semi-periferie delle nostre città che, a partire dal dopoguerra, hanno mortificato lo spirito e condizionato pesantemente i comportamenti di milioni di cittadini Italiani. La ricostruzione morale e fisica dell’Italia è stata affidata, dal 1946,  ad un branco di lupi famelici che , approfittando del disastro in cui il fascismo  aveva trascinato un Popolo ancora in formazione, destinandolo ad un epilogo di fame, morte e distruzione, hanno sconvolto a suon di mazzette e favori le regole urbanistiche ed edilizie, che erano e sono ancora oggi di fondamentale importanza per l’assetto del territorio e la convivenza civile della popolazione. E’ sufficiente fare una passeggiata per questi caotici agglomerati e osservare il paesaggio che si muove intorno a noi: una realtà fatta di edifici soffocati dalla loro stessa ingombrante presenza, uno vicino all’altro, senza aria, senza marciapiedi adeguati, senza parcheggi, senza piazze; ovunque caos e alienazione per chi ci vive, e oppressione per chi ci passa. Eppure le Leggi ci sono  (anche troppe in verità), ma non vengono applicate per la presenza costante di quei lupi famelici cui accennavamo precedentemente; più propriamente per la presenza dei discendenti di quei lupi famelici, cui si sono aggiunti, nel frattempo, ulteriori branchi di volpi astutissime: così nell’edilizia, così nella politica.

L’Italia è, oggi, letteralmente a pezzi! Prescindendo dalla grave crisi economica che comunque ci costringe a scelte di campo per far fronte alle priorità, ci troviamo nel bel mezzo di una svolta storica: la caduta di Berlusconi e del berlusconismo e il declino della cosiddetta seconda Repubblica. E’ questione di poco tempo e l’Italia dovrà tornare a “ricostruirsi”; ma su quali basi? E’ necessario che la nostra democrazia sia rifondata su due pilastri: l’attuazione costante della Costituzione repubblicana, in questi giorni in pericolo per i tentativi delle “volpi astutissime” di cambiarla, innescando così svolte autoritarie, e la formazione delle nuove generazioni intorno a saldi princìpi morali e civili. Nel primo caso occorre la vigilanza e la partecipazione alle vicende politiche e sociali del Paese di tutti quei Cittadini, e purtroppo non sono molti, che si ritengano coscienti del loro ruolo attivo nella Società, e determinati a farla progredire per il bene  ogni suo componente,  qualunque sia la sua condizione socio-culturale e la religione di appartenenza. Nel secondo caso occorre investire sulla Scuola Pubblica, proiettandola in una nuova stagione in cui siano predominanti i riferimenti culturali e storici che hanno determinato l’ordinamento repubblicano scaturito dal Risorgimento e dalla Resistenza. Una scuola il cui fine sia quello di formare il futuro cittadino all’osservanza delle leggi, al rispetto degli altri e di sè stesso, educandolo alla vita collettiva e comunitaria.

Il tempo dell’inerzia è finito! Dobbiamo ricostruire il nostro Paese.

p.m.

 

Non illudiamoci! Il cosiddetto Governo di larghe intese, più propriamente definibile “Paccottiglia repubblicanoide”, non è e non sarà mai in grado di risanare in modo sostanziale la nostra disastrosa economia, né riformare radicalmente il sistema del mondo del lavoro, presupposti oggi indispensabili per uscire dalla crisi profonda in cui versa il Paese.

Non occorre essere grandi economisti, né politici o professori di alto lignaggio per capire che un Governo siffatto, continuamente ricattabile da sinistra e, maggiormente, da destra, secondo gli avvenimenti che giorno dopo giorno ne confermano l’ipocrita impostazione e che ci rivelano l’orientamento del suo operato nella direzione, pericolosissima, di un cambiamento delle regole costituzionali in corso d’opera (vedi in questo sito: Art. 138 della Costituzione..in pericolo), un siffatto Governo, dicevamo, non aiuterà le classi più deboli del Paese ad uscire dalla prospettiva, ormai incombente, della povertà assoluta: economica, morale, sociale.

Per questo la nostra Associazione si unisce ai Parlamentari e a tutte le donne e uomini di buona volontà per impedire che tali manovre scellerate possano compromettere la salute della nostra Democrazia, fondata, come sappiamo, sulla centralità del Parlamento e sulla divisione e autonomia dei poteri costituzionali.

Più volte abbiamo ricordato nelle pagine di questo sito quanto la nostra Costituzione repubblicana affondasse le sue radici in quella della Repubblica Romana del 1849; Repubblica in cui primeggiarono, unitamente a persone di grande spessore  culturale e umano, i Padri della Patria Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi. Cambiare la Costituzione Repubblicana odierna recherebbe offesa gravissima alla natura stessa della civiltà democratica italiana, così duramente conquistata con il sangue di migliaia e migliaia di Patrioti, nel Risorgimento, prima, nella Resistenza e nelle conquiste sociali del dopoguerra, poi.

Resistete, dunque, cari giovani e meno giovani Deputati e Senatori della Repubblica! Consideratevi depositari della volontà della maggioranza del popolo Italiano e dei Padri di due gloriose Costituzioni, tra le più evolute tra tutte le Costituzioni del mondo e della storia.

ITALIANI !

MODIFICARE LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA, NATA DALLE CENERI DEL PIU’ GRAVE DISASTRO UMANITARIO, CIVILE E SOCIALE DELLA STORIA, PER AVVENTURARSI IN ALTERNATIVE ISTITUZIONALI PRESIDENZIALI O SEMI-PRESIDENZIALI, EQUIVALE A NEGARE:

 

            1.      LE RADICI DEMOCRATICHE E STORICHE DEGLI ITALIANI CHE SI RIASSUMONO NEI PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ROMANA DEL 1849; PRINCIPI AI QUALI SI ISPIRARONO I NOSTRI PADRI COSTITUENTI  DURANTE LA STESURA DELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA VIGENTE;

 

            2.      LA SOVRANITA’ DEL POPOLO CHE, DELEGANDO I SUOI ELETTI, ORA NOMINATI DAI PARTITI, A RAPPRESENTARLO IN PARLAMENTO, AFFIDA ALL’ASSEMBLEA LA CENTRALITA’  DEL MANDATO;

 

            3.       GLI  INSEGNAMENTI, IL PENSIERO E L’AZIONE  DEI PADRI DELLA PATRIA, GIUSEPPE MAZZINI  E GIUSEPPE GARIBALDI,  E DEI PADRI DELLA  NOSTRA COSTITUZIONE, ENTRATA IN VIGORE IL 1° GENNAIO 1948;

 

           4.      IL SACRIFICIO DI MIGLIAIA DI MARTIRI DEL RISORGIMENTO E DELLA RESISTENZA, CHE SI SONO BATTUTI PER L’UNITA’ E LA LIBERTA’;

 

 

           5.      I DIRITTI  DEI MOLTI IN FAVORE DEI PRIVILEGI DEI POCHI, CHE INEVITABILMENTE SCATURIREBBERO DA UNO SQUILIBRIO TRA IL POTERE ESECUTIVO, PREVALENTE, E QUELLO LEGISLATIVO E GIUDIZIARIO;

 

 

           6.      IL PROGRESSO DEL POPOLO ITALIANO; POPOLO ANCORA IN FORMAZIONE E DUNQUE ESPOSTO  A SVOLTE DITTATORIALI

RESISTIAMO !

Sta accadendo un fatto strano e difficile da spiegare, che appare più fisiologico che politico o giuridico: la Costituzione si sta trasformando. Cambia di colpo in punti vitali.

Per esempio è in atto un progetto che sta svolgendosi all’insaputa dei cittadini, ed è bene saperlo. Il progetto è di mettere mano all’art. 138 della Costituzione, o meglio di cominciare di lì. Quell’articolo è un cardine: impedisce che la Costituzione possa essere facilmente e liberamente manomessa al di fuori della complessa procedura costituzionale. Prescrive due volte il voto di ciascuna camera, e un referendum popolare di approvazione finale.

Invece la Commissione dei 40, che segue, nella stranezza e nella anomalia, quella dei dieci saggi che all’inizio di tutta questa vicenda, erano stati chiamati a consigliare il Quirinale, comincerà proprio da qui, (queste sono le istruzioni) da un ritocco che renda inutile la barriera dell’art. 138. Si può fare senza una garanzia – ovvero senza che il progetto sia previsto e concordato, fra la politica (così come essa è rappresentata nel governo) e le Istituzioni?  Se è così, ciò che sta accadendo punta verso una Costituzione ignota, che ancora non abbiamo e ancora non conosciamo. A quanto pare la Costituzione ignota ha già corretto in senso verticale le sue istituzioni. Il potere adesso discende dal potere, invece di risalire dal voto. Non solo glielettori appaiono abbandonati sul fondo, ma anche i parlamentari. Discutono a vuoto, votano a vuoto e non contano niente. Di questo fatto, che è strano perché mai deciso e mai votato dagli eletti, trovo una attendibile descrizione in un editoriale del quotidiano Il Tempo : “Le prerogative del Parlamento non possono tradursi in una sorta di diritto di veto sui programmi di ammodernamento delle Forze Armate (…) Il comunicato diffuso ieri dal Quirinale al termine della riunione del Consiglio Superiore della Difesa, presieduto dal Capo dello Stato ha aggiunto una pietruzza sulla strada, cara al presidente della Repubblica, delle riforme istituzionali (…) indicando in modo fermo e non equivoco , i limiti alla attività del Parlamento. Tutto ciò dimostra come sia già in atto, nella prassi, un processo di trasformazione delle istituzioni nel senso di un rafforzamento dell’Esecutivo. In altre parole, si sta affermando una nuova Costituzione reale ben diversa dalla Costituzione formale. (…)

Anziché parlare di uno schiaffo al Parlamento, come fanno i grillini e le vestali di una Costituzione ingessata e superata dai tempi, sarebbe bene che si cogliesse l’invito implicito a mettere mano, finalmente, alle riforme. Per il bene del Paese”. (Francesco Perfetti, 4 luglio). L’articolo è interessante perché è ispirato (dal comunicato della Presidenza della Repubblica), perché dimostra in modo chiaro e persuasivo di quali riforme si tratta (la verticalizzazione presidenzialista o semi- presidenzialista del potere politico in Italia, la marginalizzazione del Parlamento, le istruzioni per l’uso della Commissione dei 40, a cui viene assegnata la prova da svolgere con obbligo di copiatura di istruzioni già date.

E quel tanto di scherno (“le vestali di una Costituzione ingessata e superata dai tempi” ) che è sempre stato il canto di guerra della vasta e disordinata aggregazione berlusconiana. Ma allora le rivelazioni che ci vengono consegnate come una notizia, con fermo invito ad adeguarci subito, sono due. La prima, abbiamo appena appreso, è che, fin dal primo momento delle votazioni presidenziali, il progetto era già completo, con tutte le sue istruzioni per l’uso, e significava trasformazioni profonde, mai concordate e mai votate, alla Costituzione. La seconda è la vistosa e pesante asimmetria delle forze che sono state associate (la forma passiva dei verbi è necessaria) per formare il “governo insieme”.

Ecco la formula di quel governo. Da una parte tutti gli interessi personali, proprietari, giudiziari di Berlusconi più tutte le forme diverse di reazione e ostilità alla esigente e coerente Costituzione italiana. Dall’altra, figure sparse dette, per pura esigenza di identificazione, “di sinistra” (di solito intente a respingere con sdegno quella definizione) che non hanno, come riferimento, né un partito deciso a guidare né una Istituzione disposta a difendere. Un peso preponderante, dunque, è dalla parte di coloro che militano con furore e passione contro la Costituzione nata dalla Resistenza. E le figure sparse se ne accorgono quando ricevono, se si scostano, sgridate durissime e autorevoli, di solito interpretate bene, e tempestivamente espresse, dal capogruppo di Berlusconi, Brunetta.

A questo punto il discorso si fa drammatico e semplice: il dovere democratico è difendere la Costituzione senza accettare alcuna manomissione, contro un simile squilibrio di intenti e di forze. Pretendere una urgente e decente legge elettorale come unico impegno verso il Paese, il solo che si può fare a carte scoperte. Subito dopo dovremo persuadere i cittadini che per il 50 per cento si sono astenuti nelle ultime elezioni, a tornare al voto.

Furio Colombo

il Fatto Quotidiano, 7 Luglio 2013

L’Associazione Garibaldini per l’Italia, insieme all’Associazione Nazionale Garibaldina, celebrerà il 29 Agosto 2013 alle ore 9,00, al Cippo Garibaldi in Aspromonte, il 151° anniversario dello scontro “fratricida” tra le truppe Italiane comandate dal Generale Pallavicini e i volontari comandati da Giuseppe Garibaldi.

Lo scorso anno, in occasione del 150°, mettemmo in evidenza l’indifferenza, oltre all’ignoranza, che gran parte della popolazione riserva allo scontro dell’Aspromonte , quasi rappresentasse per gli Italiani un episodio insignificante nel panorama complessivo del Risorgimento (vai all’articolo). A coloro invece che cercano di approfondire e comprendere  le motivazioni storiche e culturali che hanno formato lo Stato unitario, i cui sviluppi ancora oggi si ripercuotono con incredibile efficacia sulla nostra realtà politica e sociale, abbiamo voluto dedicare una giornata di celebrazione, memoria e dibattito nei luoghi stessi ove avvenne lo scontro.

 Giovedì 29 Agosto 2013 – ore 9,00 – Cippo Garibaldi – Comune di S. Eufemia (RC)
VIDEO DELL’EVENTO

http://youtu.be/Jt7ZKH0JXq0

Riportiamo il riassunto semplificato dell’introduzione ai Doveri dell’Uomo di Giuseppe Mazzini. Il testo, sorprendente per l’attualità dei contenuti, costituisce una solida indicazione sulla forma e sulla sostanza della Società; su tali princìpi dovremmo, ieri come oggi, costruire il futuro.

p.m.

 

Perché parlare dei Doveri di ognuno di noi prima di parlare dei nostri  Diritti? Perché parlare di sacrifici, di moralità, di educazione, e non di beni materiali e di successo ? La giusta rivendicazione dei Diritti dell’uomo che in poco più di 200 anni di storia ha contrapposto le masse, che ne rivendicavano l’attuazione, alle classi dominanti, non ha migliorato, sostanzialmente, la condizione della stragrande maggioranza del Popolo:  Il costo della vita è aumentato, il salario dell’operaio progressivamente diminuito, la popolazione moltiplicata e il lavoro divenuto precario.
 L’idea dei diritti inerenti alla natura umana è oggi generalmente accettata;  allora perché la condizione del Popolo non è migliorata e la ricchezza si è concentrata nelle mani di pochi uomini appartenenti a una nuova aristocrazia? La risposta è semplice: tutti gli uomini  possono essere educati all’esercizio delle libertà conquistate. Che giova avere libertà individuale, libertà d’insegnamento, libertà di credenze, libertà nel commercio, libertà in ogni cosa e per tutti, se esistono persone che non possono esercitare alcuno di questi diritti ? La “cultura del diritto” ha generato uomini che si sono impegnati nel miglioramento della propria condizione senza provvedere a quella degli altri; questo orientamento ha causato lo scontro tra i diritti degli uni contro i diritti degli altri, nel quale “i forti” per mezzi e risorse  hanno schiacciato sovente i deboli o gli inesperti.
In questa ottica gli uomini sono stati educati all’egoismo e all’avidità dei beni materiali, perché proposti come fine e non come mezzo. In conseguenza della “teoria dei Diritti”, gli uomini, privati di una credenza comune, calpestano le teste dei loro fratelli, fratelli di nome e nemici di fatto. Quale diverso comportamento si può pretendere da quelle persone alle quali per anni si è parlato di interessi materiali, nel momento in cui, trovandosi di fronte a ricchezza e potenza, stendono la mano per afferrarle anche a scapito dei propri fratelli? E’ dunque una questione di educazione .
Educazione a un principio: il Dovere. Attraverso l’educazione al Dovere si può arrivare a comprendere che lo scopo della vita non è quello di essere più o meno felici, ma di rendere sé stessi e gli altri migliori; che combattere l’ingiustizia  a beneficio dei fratelli non è soltanto esercitare un diritto, ma un Dovere. Questo non vuol dire rinunciare ai diritti, bensì arrivare al loro raggiungimento attraverso la pratica dei Doveri. Quando udite dire dagli uomini che predicano un cambiamento sociale che lo fanno per accrescere i vostri diritti, è opportuno diffidare della proposta perché loro conoscono i mali che vi affliggono e la loro condizione di privilegio giudica quei mali come una triste necessità dell’ordine sociale; per questo lasciano la cura dei rimedi alle generazioni che verranno.
Occorre dunque far loro capire che solo attraverso l’associazione con voi possono conquistare l’organizzazione sociale che può porre fine ai vostri mali e ai loro terrori. Quando Cristo venne e cambiò la faccia della terra, Egli non parlò dei diritti ai ricchi, che non avevano bisogno di conquistarli, o ai poveri che ne avrebbero forse abusato, ad imitazione dei ricchi; parlò di Dovere: parlò d’amore, di sacrificio, di Fede. Quelle parole, sussurrate all’orecchio di una società che non aveva più scintilla di vita, la rianimarono, e fecero progredire d’un passo l’educazione del genere umano. Come gli Apostoli che seguirono l’esempio del Cristo, dovreste predicare il Dovere agli uomini delle classi che vi opprimono; predicate la virtù, il sacrificio, l’amore e comportatevi con virtù, sacrificio e amore. Cercate d’istruirvi, migliorare, educarvi alla piena conoscenza e alla pratica dei vostri Doveri.

Don Andrea Gallo, per tutti noi il Don, è il compagno che vorremmo avere al nostro fianco in ogni momento della vita. Ci ha insegnato che il vizio capitale peggiore è l’ottavo: l’indifferenza. È stato un grande rivoluzionario. Quando glielo rammentavo, la risposta era sempre la stessa: “Io ho seguito solo le impronte lasciate dagli altri”. Sì, è stato un grande rivoluzionario, non solo per il bene che ha fatto, ma per la forza della sua parola, per l’esempio dato dal suo modo di vivere, in una società che distrugge i valori, dove morale ed etica sono diventati optional. Quante volte Don Gallo si è domandato: “Dov’è la fede? Nelle crociate moralistiche? Dov’è la politica? Nei palazzi? Dove sono i partiti? Sempre più lontani. È una vera eutanasia della democrazia, siamo tutti corresponsabili, anche le istituzioni religiose”.

Lui ha semplicemente messo in pratica gli insegnamenti del cristianesimo partendo dalla virtù che dovrebbe essere alla base della vita di un prete: la povertà, e che invece la Chiesa, quella conservatrice, quella dei tabù, gli ha sempre contestato, a volte trattandolo da eretico. Con la Chiesa il rapporto è stato difficile sin dall’inizio. “Chi vuol farsi obbedire deve prima riuscire a farsi amare”, sono le parole di Don Bosco che Andrea aveva fatto sue. Ordinato sacerdote il 1° luglio 1959, poco prima del suo trentunesimo compleanno. Il primo incarico, l’anno dopo, come cappellano alla nave scuola della Garaventa, noto riformatorio per minori. Il metodo che usava con i ragazzi (non aveva alla base l’espiazione della pena), non era gradito. Con lui fiducia e libertà prendono il posto della repressione. Lavora sulla responsabilità, consentendo ai ragazzi di uscire per andare al cinema e vivere momenti di auto gestione. Dopo tre anni fu rimosso dall’incarico senza nessuna spiegazione. Nel 1964 il Don decise di lasciare la congregazione salesiana per entrare nella diocesi genovese. “Mi impedivano di vivere pienamente la vocazione sacerdotale”, racconterà successivamente.

ALLA CHIESA HA SEMPRE CONTESTATO: la piramide gerarchica; la ricchezza; la mancanza del no totale alla guerra; la condanna nei confronti della laicità. Per Don Gallo la laicità ha rappresentato la difesa dei diritti dell’uomo. Nel 1965 la diocesi lo mandò come viceparroco alla chiesa del Carmine in un quartiere popolare di Genova. “Di portuali e operai, con abitazioni inagibili, un mercato rionale quasi indecente. Giravo nei vicoli, sostavo tra i banchi, passavo in edicola, discutevo con il salumiere che era convinto che mi piacesse il prosciutto ma comprassi la mortadella perché ero tirchio e volevo spendere meno”. Erano gli anni della fine del concilio Vaticano II. Gli anni in cui con papa Giovanni XXIII la Chiesa decise di leggere i segni dei tempi. La guerra del Vietnam. Facciamo l’amore e non la guerra, era lo slogan del movimento pacifista americano. Da noi, dopo la rivolta francese, nacque la contestazione, il movimento studentesco con la riforma della scuola, i giovani entrarono sempre più nel sociale. Alla messa di mezzogiorno Andrea trattava i temi di attualità, era nettamente schierato al fianco degli ultimi, cominciò a tenere due leggii: da una parte il Vangelo, dall’altra il giornale.

Nel 1970 la Chiesa, dopo averlo fatto spiare dal parroco che registrava di nascosto le sue prediche, decise di trasferirlo. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso e che aveva fatto scatenare l’indignazione dei benpensanti fu la predica all’indomani della scoperta di una fumeria di hashish nel quartiere. Il Don, invece di inveire contro chi rollava qualche spinello, ricordò che vi erano altre droghe ben più diffuse e pericolose, per esempio quella del linguaggio, che poteva tramutare il bombardamento di popolazione inerme in un’azione a difesa della libertà. Fu accusato di fare politica e di essere comunista. Don Gallo aveva trasformato la parrocchia del Carmine in un luogo di aggregazione, di confronto per giovani e adulti. “Mi hanno rubato il prete” è quello che disse un bambino a chi gli chiedeva perché stesse piangendo, seduto sulle scale della chiesa del Carmine il 2 luglio 1970 durante la manifestazione di solidarietà contro il trasferimento di Don Gallo voluto dall’arcivescovo di Genova, cardinale Siri. Quel giorno erano migliaia le persone che manifestarono a suo favore. Quel giorno segnò la sua identità, rappresentò il momento in cui Don Gallo prese coscienza di essere in relazione con gli altri, di essere prete e laico contemporaneamente.

Don Gallo rimarrà per sempre un simbolo della dignità e dell’uguaglianza tra gli uomini. Quel biglietto da visita che Gesù gli aveva consegnato non se l’è mai messo in tasca, lo ha stretto forte, forte per sempre nelle mani, il sale, il lievito, il chicco di grano sono stati sempre presenti in ogni sua azione. Nella sua vita c’è un altro momento fondamentale. L’8 settembre 1943 Andrea aveva quindici anni, suo fratello Dino, ufficiale del genio pontieri, era considerato disperso, invece era entrato nella Resistenza. A novembre tornò a casa per qualche giorno. Fu Dino a parlare ad Andrea per la prima volta di Resistenza, di lotta di Liberazione, di valori e libertà. “Aprii gli occhi sul nazifascismo. Per me fu facile scegliere da che parte stare. Su quei valori cominciò il mio percorso di vita”. Andrea decise di disertare e di seguire il fratello entrando nella Resistenza come staffetta con il nome di battaglia Nan, diminutivo di Nasan che in genovese significa nasone che era il soprannome che gli avevano dato a scuola, a causa del naso prominente. “Sono un miracolato, prima che da Dio, dal fascismo”.

PER DON GALLO “L’INCONTRO” con Don Bosco arrivò a vent’anni. Un giorno mentre giocava a pallone conobbe il salesiano Piero Doveri, è lui che gli cambiò la vita. “La gioia di vivere con gli altri e per gli altri di questo prete mi ha completamente fulminato. E se diventassi anch’io un prete di Don Bosco? Diventando educatore posso stare al contatto con i ragazzi, cercando di aprire la loro anima, di aprire le loro potenzialità nella libertà, nella giustizia, nella democrazia nel benecomune, nella pace”. Così Don Gallo trovò la vocazione: “Don Bosco mi ha dato Gesù”. Un giorno gli chiesi il significato di queste parole e lui mi disse: “Io non son portato all’illuminazione o altro. L’incontro è come uno scambio di biglietti da visita. Gesù mi ha dato il suo biglietto: son venuto per servire e non per essere servito”. Dopo la cacciata dalla chiesa del Carmine, il Don capì che la diocesi non lo avrebbe mandato da nessuna parte. Grazie a un amico incontrò don Federico Re-bora, il parroco di San Benedetto. “Quando gli parlai la prima volta, mi rispose semplicemente: venite. Io e i miei ragazzi siamo accampati lì da quarantatré anni. Qualche anno dopo è nata la comunità di base San Benedetto al Porto”.

Don Gallo ha sempre ricordato che è ad essa che deve la sua maturazione come uomo, come cristiano, come prete. “Io so che devo rispondere alla mia coscienza di fede, ma è stando in comunità che ho capito che devo rispondere anche alla mia coscienza civica”. Ho scritto qualche anno fa dopo un nostro dibattito: “Peccato che il Don sia un prete, se fosse un politico, avremmo trovato il nostro leader”. Ci hanno rubato il prete che parlava dell’amore, ci hanno rubato il prete che era monsignore.

Loris Mazzetti

Da Il Fatto Quotidiano del 23/05/2013.

La battaglia del 3 Giugno 1849 a Roma, poco fuori la Porta di San Pancrazio, fu decisiva per l’inizio della caduta della Repubblica Romana . Negli scontri con i Francesi del Generale Oudinot persero la vita centinaia di patrioti e soldati accorsi da ogni parte d’Italia e d’Europa, con presenze anche americane, per difendere il sogno di una democrazia e una repubblica, nate per riscattare la dignità del Popolo italiano, da secoli sottomesso a poteri che avevano represso la sua libertà.

Quest’anno la nostra Associazione vuole ricordare quei giorni gloriosi con una cerimonia commemorativa, per non dimenticare il sacrificio estremo di quei giovani.

 

La locandina dell’evento

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Malgrado la minaccia di pioggia e lo sciopero dei mezzi pubblici, si è conclusa felicemente il 3 giugno  la rievocazione di quegli scontri furiosi di 164 anni fa tra l’esercito della Repubblica Romana e quello della Repubblica Francese, in cui  perse la vita il fior fiore dei Patrioti Italiani  della metà dell’ottocento. La memoria, patrocinata dal Municipio Roma XII, cui hanno partecipato la Banda musicale della Guardia di Finanza in costume storico, il Coro LabBosio di Roma, le associazioni A.N.P.I, F.I.A.P. e Ambrosia, è stata celebrata in presenza della neo-eletta Presidente del Municipio Roma XII, avv. Cristina Maltese e del Generale di Brigata Raffaele Romano, comandante della Banda musicale.
L’alternanza delle citazioni importanti di Giuseppe Mazzini, Andrea Costa e Raffaele Tosi, con brani musicali eseguiti magistralmente dalla Banda della Guardia di Finanza diretta dal Maestro Maurizio Ambrosini e alcuni canti della libertà intonati con passione dal coro LabBosio diretto da Sara Modigliani, oltre alla lettura di venti nomi tra le centinaia di caduti di quel tragico giorno e della difesa di Roma,  hanno favorito la riflessione sulla Patria, sulle nostre radici storiche e culturali e sui destini dell’Italia.
 Si ringraziano tutti i partecipanti; in particolare l’attore e regista Vanni De Lucia e la garibaldina Enrica Quaranta per il loro importante contributo. L’Associazione Garibaldini per l’Italia, rinnovando l’impegno finalizzato alla divulgazione dei valori fondanti la nostra democrazia costituzionale, è sempre più convinta che il ruolo determinante per il progresso del Paese sia l’attualizzazione costante dei princìpi nati nel Risorgimento, con particolare riferimento alla Repubblica Romana del 1849 e alla Resistenza del 1943-’45.

IL FILMATO AMATORIALE   http://www.youtube.com/watch?v=0tl_cGcYMBE

Cuscino di fiori

Presidente Paolo Macoratti

Arturo De Marzi

Vanni De Lucia e Gianni Riefolo

Pres. Cristina Maltese e Gen. Raffaele Romano

Enrica Quaranta

Pupa Garribba

Vanni De Lucia

Maggiore Antonio Di Biagio

Sara Modigliani

Cinzia Dal Maso

Alcide Lamensa e Arturo De Marzi

Maurizio Santilli e Arturo De Marzi

Cristina Maltese e Raffaele Romano

Antonio Ladevaia

Gabriele Modigliani

Sara Modigliani

Maestro Maurizio Ambrosini

L’Associazione di promozione sociale “Ambrosia”,  in collaborazione con l’Associazione “Garibaldini per l’Italia” e Museo della Repubblica Romana e della memoria garibaldina, promuove un ciclo di incontri e visite guidate per fare memoria della Repubblica Romana, nel 164° anniversario della nascita e della caduta

La locandina

 

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Il Consiglio Direttivo dell’Associazione Garibaldini per l’Italia ha conferito a Cinzia Dal Maso, giornalista e scrittrice, la tessera di Socia Onoraria n° 04/o. Sabato 23 marzo, in occasione del tesseramento annuale,  abbiamo  avuto il piacere di consegnarLe la tessera, il fazzoletto sociale e una copia dello Statuto

MOTIVAZIONE TESSERA ONORARIA N° 04/O

PER LA DOTT.SSA  DAL MASO CINZIA GIORNALISTA E SCRITTRICE

 Il Consiglio Direttivo. in conformità agli artt. 7 e 4 dello Statuto ha deciso all’unanimità di concedere alla Dott.ssa Dal Maso Cinzia la qualifica di Socia Onoraria dell’Associazione Garibaldini per l’Italia

per  lo studio e la diffusione della memoria storica, con particolare attenzione alle
figure femminili legate alla Repubblica Romana del 1849.
Si riconosce a Cinzia Dal Maso il merito di aver potenziato le sue ricerche con
interventi concreti che hanno contribuito a far emergere dal passato un patrimonio umano ricco di valori ed eroismo

“ Gente che volta le spalle, persone concentrate a guardare un orizzonte vuoto. La legge, il clero, l’anziana col bastone, giovani uomini e donne d’ogni tipo che attendono con lo sguardo interessato che sul palcoscenico  spunti qualcosa. Intanto “l’indifferenza” regna sovrana ed ognuno guadagnando il suo posto in prima, seconda o ultima fila sta a guardare. Qualcuno chinandosi, sforzandosi di sbirciare, di infiltrare lo sguardo cerca di guardare oltre, è l’anziana signora che offre al bastone i suoi sforzi; Niente, ‘resti in coda’ sembrano dirgli infinite spalle, che come sbarre di un cancello respingono i suoi affannosi tentativi. Voci ondeggiano tra la folla, come un tam tam serpeggia un ‘ecco!. ‘comincia’, ‘arriva chissà!’. Niente, l’infinito orizzonte resta un infinito cielo. L’indifferenza è un mio scherzo figurativo inventato negli anni (…) gli anni appunto dell’indifferenza. Anni duri, che hanno visto il massimo della concentrazione, da parte dei partiti politici a smantellare i valori ed i presupposti essenziali della nostra Democrazia Costituzionale, legalità, giustizia e solidarietà. Da partigiano ed uomo della Resistenza, sentendomi come uno di quei tasselli che hanno contribuito a costruire il mosaico della Democrazia in questo Paese, ho avuto la netta sensazione che questo mosaico si stesse frantumando. Come? Perdendo di vista i presupposti costituzionali necessari.

In primo luogo i partiti (….) perdono il proprio ruolo di “formazione ed informazione” dei cittadini così come avevano previsto i Padri Costituenti. La distanza tra i cittadini ed essi aumenta vertiginosamente, le sedi si svuotano, il dibattito, le assemblee perdono valore, a volte non sono mai convocate e i ‘pacchetti di tessere’ anonimi e ‘monetizzati’ prendono il posto delle alzate di mano o delle opinioni democraticamente discusse. Il consenso, i voti, si raccolgono sempre di più come se si vendessero pentole, enciclopedie o assicurazioni. (…) A quel punto la politica diventa mera gestione del consenso (tecnicamente ottenuto) ed amministrazione del potere derivante da questo consenso, e finalizzata solo al raggiungimento del consenso, non all’interesse generale dei cittadini. (…)

L’orizzonte è ancora vuoto e la gente ancora nel mio quadro volta le spalle e comincia ad essere inquieta. Con il referendum (…) il sistema tecnico politico vacilla e perde. La gente vince. Vince quella folla voltata di spalle che vuole solo restituire alla politica ed ai partiti l’originale dignità. Ricostruire cioè quel democratico ambito nel quale si discutono e si affrontano gli interessi generali dei cittadini, al fine di migliorare la qualità della vita, socialmente, culturalmente ed onomicamente.

E’ come se tutti magicamente nel mio vecchio quadro cominciassero a voltarsi; la vecchietta ruotando il bastone, e a braccetto del Carabiniere, si ritrovasse improvvisamente in prima fila. Ritornano principi e valori forti costituzionali: legalità, solidarietà e giustizia. Certamente, mi direte questa è arte, non è politica. Infatti immaginiamo di cambiare mentre in realtà solidarietà e legalità stentano ad essere affermati come principi cardine. (…)

Non possiamo rimanere sordi all’appello del Presidente verso una “Nuova Resistenza”, contro la mafia e la svalutazione della democrazia, ed io partigiano della prima resistenza, rispondo a questo appello con rinnovato impegno. (…) Questa la scommessa, ma mi accorgo che non basta voltarsi, bisogna uscire dalla tela del quadro; perché le riforme abbiano senso, bisogna riappropriarsi da cittadini, degli spazi finora resi inaccessibili dal vecchio sistema tecnico politico; ognuno nel proprio lavoro, nelle scuole, nella città contribuisca a riaffermare quei principi costituzionali di base senza i quali non si ristabilisce l’assetto democratico del nostro Paese.

 Ognuno faccia la sua parte e…ci riusciremo! Da parte mia continuerò a parlare con le mie tele, i miei pennelli ed i miei colori, come un cronista, non voltando le spalle al nuovo.” Discorso di mio padre Osvaldo, artista, Segretario regionale  dell’Anpi – Puglia, medaglia d’argento al valor militare, pronunciato e pubblicato a Trani in occasione della Festa della Liberazione del 25 Aprile 1993. La tela che oggi è esposta nella Sala Azzurra della Città di Trani, la realizzò nel 1982. Il Presidente che invitò alla Nuova resistenza fu Scalfaro. Quel giorno sotto il palco fioccarono applausi ed alla fine tutti intonammo “Bella ciao”. Se oggi, ci fosse un’occasione, per parlare da un palco, saprei cosa dire; spero e lotto affinché non debba essere così in futuro per le mie figlie. Quando le opere d’arte, restano spaventosamente attuali per trent’anni, non c’è solo la bravura dell’artista, c’è qualcosa di terribile che non va nel Paese.

Massimo Pillera – Il Fatto Quotidiano 24 Aprile 2013

“Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà  all’uno e trascurerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammòna” (Vangeli di Matteo e Luca)

Così come l’insegnamento  cristiano impone al fedele l’osservanza di questa semplice e coerente scelta di campo, nello stesso modo il cittadino di una Repubblica democratica ha il dovere di scegliere tra chi opera per il bene della collettività e chi  utilizza le Istituzioni per soddisfare e potenziare  interessi privati che contrastano lo sviluppo e il progresso del Popolo.  

I recenti, incredibili  avvenimenti legati all’elezione del Capo dello Stato  hanno impedito che in Italia si realizzasse, almeno sulla carta, quel processo di reale cambiamento e quell’inversione di tendenza  politica e culturale da tempo invocata.

Nelle pagine di questo sito  abbiamo più volte sottolineato la coincidenza tra i comportamenti delle varie correnti politiche della seconda metà dell’ottocento (conservatrici, moderate riformiste o democratiche e rivoluzionarie) e quelle dei nostri giorni; comportamenti  drammaticamente simili per inciuci, ignavia, camaleontismo, superbia; e quanto tali posizioni fossero condannate molto duramente da Garibaldi, Mameli, Mazzini e tutti coloro che avevano compreso quanto fosse importante costruire una società nuova su solide e virtuose fondamenta, non solo per unificare un territorio culturalmente eterogeneo,  quanto per formare la coscienza civile di un intero Popolo. La maggior parte delle strade delle nostre città sono ora asfaltate e non più polverose come quelle dell’800, ma la personalità degli uomini che le calpestano  è cresciuta in cinismo e individualismo. Il problema di fondo, dunque, rimane: la maggioranza degli Italiani deve ancora essere “formata” alla civiltà e al progresso; e certo non aiuta aver affossato culturalmente e finanziariamente  la scuola pubblica, fonte indiscussa di formazione e crescita del cittadino.

 Non si può servire a due padroni! Come possiamo essere indifferenti alle vicende che hanno portato l’Italia a sprofondare ai livelli più bassi della sua storia repubblicana? Come possiamo ignorare le politiche sbagliate, gli scandali, le ruberie, i conflitti d’interesse, le concussioni, le corruzioni, le connivenze con le mafie,  che certi opportunisti  legati a Silvio Berlusconi  (compresa quella pseudo-opposizione e quelle figure istituzionali che ne hanno favorito il dilagare)  hanno inflitto al povero Popolo italiano, stordito dalle televisioni e ingannato da tali abili manovratori? Occorre scegliere: servire due padroni peggiorerà ulteriormente la grave crisi che stiamo vivendo.

Se solo ci fossimo liberati dalle scorie del passato, dai vincoli del partitismo autoritario, apparentemente democratico, che non vuole sacrificare il piccolo potere di una piccola casta al vero bene della collettività, avremmo visto, forse, nascere una  luce per l’Italia; la stessa luce sognata dalle nuove generazioni che avevano identificato Stefano Rodotà con l’uomo che incarnava  la speranza.

Paolo Macoratti 

PER CHIARIRE  IL SIGNIFICATO DELLA CANDIDATURA DI STEFANO RODOTA’, INSERIAMO LA LETTERA CHE LO STESSO HA SCRITTO A EUGENIO SCALFARI

Questa la lettera di Stefano Rodotà a Eugenio Scalfari, che lo aveva pesantemente attaccato per la sua scelta di offrire il fianco al Movimento 5 Stelle:

Caro direttore,

non è mia abitudine replicare a chi critica le mie scelte o quel che scrivo. Ma l’articolo di ieri di Eugenio Scalfari esige alcune precisazioni, per ristabilire la verità dei fatti.

E, soprattutto, per cogliere il senso di quel che è accaduto negli ultimi giorni. Si irride alla mia sottolineatura del fatto che nessuno del Pd mi abbia cercato in occasione della candidatura alla presidenza ella Repubblica (non ho parlato di amici che, insieme a tanti altri, mi stanno sommergendo con migliaia di messaggi). E allora: perché avrebbe dovuto chiamarmi Bersani? Per la stessa ragione per cui, con grande sensibilità, mi ha chiamato dal Mali Romano Prodi, al quale voglio qui confermare tutta la mia stima. Quando si determinano conflitti personali o politici all’interno del suo mondo, un vero irigente
politico non scappa, non dice «non c’è problema », non gira la testa dall’altra parte. Affronta il problema, altrimenti è lui a venir travolto dalla sua inconsapevolezza o pavidità. E sappiamo com’è andata oncretamente a finire.

La mia candidatura era inaccettabile perché proposta da Grillo? E allora bisogna parlare seriamente di molte cose, che qui posso solo accennare. È infantile, in primo luogo, adottare questo criterio, che enota in un partito l’esistenza di un soggetto fragile, insicuro, timoroso di perdere una identità peraltro mai conquistata. Nella drammatica giornata seguita all’assassinio di Giovanni Falcone, l’esigenza di una risposta istituzionale rapida chiedeva l’immediata elezione del presidente della Repubblica, che si trascinava da una quindicina di votazioni. Di fronte alla candidatura di Oscar Luigi Scalfaro, più d’uno nel Pds osservava che non si poteva votare il candidato “imposto da Pannella”. Mi adoperai con successo, insieme ad altri, per mostrare l’infantilismo politico di quella reazione, sì che poi il Pds votò compatto e senza esitazioni, contribuendo a legittimare sé e il Parlamento di fronte al Paese.

Incostituzionale il Movimento 5Stelle? Ma, se vogliamo fare l’esame del sangue di costituziona-lità, dobbiamo partire dai partiti che saranno nell’imminente governo o maggioranza. Che dire della Lega, con le minacce di secessione, di valligiani armati, di usi impropri della bandiera, con il rifiuto della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, con le sue concrete politiche razziste e omofobe? È folklore o agire in sé incostituzionale? E tutto quello che ha documentato Repubblica nel corso di tanti anni sull’intrinseca e istituzionale incostituzionalità dell’agire dei diversi partiti berlusconiani? Di chi è la responsabilità del nostro andare a votare con una legge elettorale viziata di incostituzionalità, come ci ha appena ricordato lo stesso presidente della Corte costituzionale? Le dichiarazioni di appartenenti al Movimento 5Stelle non si sono mai tradotte in atti che possano essere ritenuti incostituzionali, e il loro essere nel luogo costituzionale per eccellenza, il Parlamento, e il confronto e la ialettica che ciò comporta, dovrebbero essere da tutti considerati con serietà nella ardua fase di transizione politica e istituzionale che stiamo vivendo.

Peraltro, una analisi seria del modo in cui si è arrivati alla mia candidatura, che poteva essere anche quella di Gustavo Zagrebelsky o di Gian Carlo Caselli o di Emma Bonino o di Romano Prodi, smentisce la tesi di una candidatura studiata a tavolino e usata strumentalmente da Grillo, se appena si ha nozione dell’iter che l’ha preceduta e del fatto che da mesi, e non soltanto in rete, vi erano appelli per una mia candidatura. Piuttosto ci si dovrebbe chiedere come mai persone storicamente appartenenti all’area della sinistra italiana siano state snobbate dall’ultima sua incarnazione e abbiano, invece, ollecitato l’attenzione del Movimento 5Stelle. L’analisi politica dovrebbe essere sempre questa, lontana da malumori o anatemi.

Aggiungo che proprio questa vicenda ha smentito l’immagine di un Movimento tutto autoreferenziale, arroccato. Ha pubblicamente e ripetutamente dichiarato che non ero il candidato del Movimento, ma una personalità (bontà loro) nella quale si riconoscevano per la sua vita e la sua storia, mostrando così di voler aprire un dialogo con una società più larga. La prova è nel fatto che, con sempre maggiore chiarezza, i responsabili parlamentari e lo stesso Grillo hanno esplicitamente detto che la mia elezione li avrebbe resi pienamente disponibili per un via libera a un governo. Questo fatto politico, nuovo ispetto alle posizioni di qualche settimana fa, è stato ignorato, perché disturbava la strategia rovinosa, per sé e per la democrazia italiana, scelta dal Pd. E ora, libero della mia ingombrante presenza, forse il Pd dovrebbe seriamente interrogarsi su che cosa sia successo in questi giorni nella società italiana, senza giustificare la sua distrazione con l’alibi del Movimento 5Stelle e con il fantasma della Rete.

Non contesto il diritto di Scalfari di dire che mai avrebbe pensato a me di fronte a Napolitano. Forse poteva dirlo in modo meno sprezzante. E può darsi che, scrivendo di non trovare alcun altro nome al posto di Napolitano, non abbia considerato che, così facendo, poneva una pietra tombale sull’intero Pd, ritenuto incapace di esprimere qualsiasi nome per la presidenza della Repubblica.

Per conto mio, rimango quello che sono stato, sono e cercherò di rimanere: un uomo della sinistra italiana, che ha sempre voluto lavorare per essa, convinto che la cultura politica della sinistra debba essere proiettata verso il futuro. E alla politica continuerò a guardare come allo strumento che deve tramutare le traversie in opportunità.